Appunti su “Il piccolo Gatsby”

GALLERIA

Il libro, il racconto

Il piccolo Gatsby è il penultimo degli otto racconti de Il gioco del rovescio, uscito nel 1981, uno dei primi libri di Antonio Tabucchi, uno dei più belli. Ci mostra uno scrittore diverso rispetto a quello dei due romanzi precedenti, Piazza d’Italia (1975) e Il piccolo naviglio (1978), uno scrittore di cultura europea, uno dei più grandi scrittori di racconti della nostra tradizione letteraria.

È un racconto abbastanza lungo (quindici pagine) e complesso, perciò interessante per cercare di individuare alcune caratteristiche del modo di narrare di Tabucchi, che in quel momento sta sperimentando nuovi temi e un nuovo stile. La sperimentazione di nuovi temi, ambienti e stile è presente anche negli altri racconti e si ritroverà nei libri successivi.

Il gioco dei tempi

Ci sono tempi diversi: il tempo presente in cui stanno l’io narrante e la sua ascoltatrice; il tempo in cui avviene la storia narrata, che è un tempo passato, dove “i minuti passavano lenti”.  E poi un’idea del tempo che esce dai cardini dell’andamento lineare e scorre a ritmi diversi, si considerino la metafora “Il tempo è perfido, ci fa credere di non passare mai, e se guardiamo indietro è passato troppo in fretta” che rimanda al titolo di un’altra bellissima raccolta di racconti di Tabucchi Il tempo invecchia in fretta (Feltrinelli, 2009), e ci sono i tempi a incastro verso il finale.

L’io narrante e la destinataria

C’è un io narrante che si rivolge direttamente al lettore, anzi a una lettrice, una destinataria silenziosa chiamata Martine, il cui nome compare a metà della terza pagina nell’edizione Sellerio del 1983. Martine era “veramente giovane”, ma era preoccupata per “quelle macchioline che appaiono sul dorso delle mani”. Martine cercava di scongiurare la vecchiaia “con creme e lozioni”. Il protagonista, un bell’uomo ancora giovane, sentiva però che stava invecchiando, ma ciò che temeva era un’altra vecchiaia, era la paura di non essere capace di cogliere la sua unica occasione, il rimpianto di non essere riuscito a fare la sua “gita al faro”, quel faro lontano dalla spiaggia, oltre le onde. Il riferimento a Virginia Woolf non è certo uno sfoggio letterario, è la tensione ad altro, quel faro avvolto nella bruma attira Tabucchi, che scrive anche l’incipit del romanzo: “Sì di certo, se domani farà bel tempo, disse la signora Ramsay, ma bisognerà che tu ti alzi al canto del gallo”. Alla riga uno di pagina uno di Gita al faro Mrs Ramsay fa la promessa, che viene mantenuta nella terza sezione, quando ormai è morta. È morta senza mancare la promessa fatta, che avverrà nonostante la sua assenza, la sua forza sta nel mantenere la sua promessa dal regno dei morti. Il prima e il dopo in qualche modo si ricongiungono.

Con la sua consueta generosità Bruno Ferraro mi segnala che, nella sezione 6 di Requiem (Feltrinelli, 1992), appare la Moglie del Guardiano del Faro che accompagna il personaggio chiamato “io” a visitare la vecchia villa che sta crollando dove, nella camera degli ospiti vuota e con il tetto caduto, “attraverso la finestra si vedeva il faro”, dove il Guardiano “ora deve essersi addormentato” (p. 93).

Qual è la promessa del protagonista de Il piccolo Gatsby, uno scrittore inquieto e in crisi che gioca con gli incipit dei romanzi di Fitzgerald? Forse semplicemente quella di trovare la sua strada come narratore. Per Tabucchi il rapporto tra vita e scrittura è molto stretto, scrivere “non vuol dire solo maneggiare le parole. Significa soprattutto stare attenti alla realtà circostante, alle persone, agli altri” (Antonio Tabucchi, “Essere scrittore”, La Repubblica, 1/4/2012, corrispondenza con Paolo Di Paolo). Significa provare a cogliere il reale nel senso più profondo delle cose e fare quello che prima o poi sarà la sua propria scrittura, fatta di una pluralità di voci e di comunicazioni tra il regno dei vivi e quello dei morti.

Il nome del protagonista arriva solo all’inizio della sesta pagina del racconto: Perri, che può essere anche un cognome. Athos Bigongiali mi ha segnalato un calco interessante. Se facciamo una ricerchina su Google, scopriamo un libro scritto da un autore, Antonio Nicaso, definito come “esperto di organizzazioni criminali in Nord-America”, intitolato “Il piccolo Gatsby. La storia di Rocco Perri, il re del contrabbando di liquori”, negli anni Venti e Trenta del Novecento. Secondo me l’allusione a questo Perri è fuorviante, perché i temi di questo “testo breve” (Bruno Ferraro mi ricorda che Tabucchi evitava la classificazione romanzo / racconto, preferiva definire i suoi scritti “testi lunghi / testi brevi) sono altri, primo fra tutti penso sia quello della scrittura. L’io narrante è uno scrittore in crisi, che si ripete: “il mio racconto era dentro di me, un giorno l’avrei scritto”, poi dice a Martine che “sarebbe sgorgato come una sorgente” e avrebbe scritto “come per magia, le parole si sarebbero ordinate sulla pagina per incanto, attirate da una calamita che si chiama ispirazione”. Poi si contraddice, dice di non averlo mai pensato, finge, fa un doppio gioco, dice che non avrebbe più scritto niente.

Perri viene nominato una sola volta in tutto il racconto, come se l’autore volesse dissipare questo personaggio così ambiguo (“Gli affaretti discreti di Perry, così dubbiosi ma così redditizi”, p. 123) e che recita un ruolo da cui vorrebbe uscire (“Basta. Non avevo più voglia di recitare, del resto anche gli altri non avevano più voglia di starmi a sentire”, p. 114). Sa a memoria gli inizi dei romanzi di Fitzgerald, e pensa di andare bene alla sua Martine solo “per pochi attimi notturni”, si sente un personaggio del giochino, la figurina di un racconto”. L’io narrante non viene descritto, ma in qualche modo si dà un tracciato delle metafore sentimentali alle quali corrisponde. C’è una frase in cui si capisce bene come Tabucchi, con la sua capacità di narrare, ci metta dentro in un’atmosfera: “L’età che sentivo non apparteneva all’anagrafe, era un soffocamento, come una tenda intorno al viso”. Una sera inganna i suoi amici attribuendo una citazione di Pessoa (“La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visti”) a Fitzgerald in This Side of Paradise, Di qua del Paradiso. Altro tema affrontato è quello della morte, non so, forse è il tema di tutti gli scrittori e non solo, ma per Tabucchi forse è quello essenziale.

Personaggi presi a prestito

La costruzione del racconto “orchestrata”, con una serie di citazioni, di temi, frasi, personaggi, immagini, appartenenti non al proprio mondo narrativo, ma generati dalla penna di altri scrittori – quali Pessoa, Woolf, ma soprattutto Fitzgerald, dal quale Tabucchi prende in prestito i personaggi di Tender Is the Night e di The Great Gatsby, – contribuisce a moltiplicare i significati del testo e va vista “alla luce del progetto di Antonio, tutto imperniato sul tema del gioco, dello sdoppiamento, della teatralità della vita, del passare del tempo, della morte, dell’alterità.” (Bruno Ferraro). Anche se il tema principale, secondo me, rimane quello della scrittura. “Il titolo stesso è fuorviante, come anche la noticina introduttiva (all’edizione Feltrinelli con il quadro di Davide Benati in copertina, ndr), perché i riferimenti a Fitzgerald sono più vicini alle tematiche del primo romanzo dell’autore americano, This Side of Paradise, Di qua del paradiso”, (Bruno Ferraro).

Oltre a Martine e Perri (“Ma chi ero io? Io non ero Dick, anche se avevo il suo ruolo”), gli altri personaggi di questo racconto, Nicole, Zelda, Rosemary Hoyt, Tom Barban, Scottie (Barbara), la signorina Bishop, il signor Deluxe, Brady, gli Arrighi “quei due, erano due perfetti Mc Kisco, sono in un gioco in cui recitano come se fossero dei personaggi in un romanzo di Fitzgerald, “poverini, magari senza nemmeno sapere chi era Fitzgerald”. Il protagonista però va in crisi, perché non vuole più recitare la parte che gli è stata assegnata e, a un certo punto, trova il coraggio di dire basta e di uscire da quel ruolo e da quella finzione.

La musica, la Costa Azzurra

Dentro Il piccolo Gatsby, insieme agli incipit di romanzi c’è il jazz di Tony Bennet con Tender is the Night, di Charlie Parker con Easy to love, quello di Rex Steward, di Duke Ellington, ci sono brani come Trompett in Space e Kissing my baby, good-night.

Al protagonista piace la canzone Quizás, Quizás, Quizás cantata da Nat King Cole, sente che gli è propria, gli causa “una sottile malinconia”.

“La conoscenza del jazz è veramente impressionante: Antonio avrà fatto una ricerca accurata ed approfondita perché all’epoca in cui ha scritto questi racconti imperversava il West Coast Jazz dal quale era difficile staccarsi: Art Pepper, Jim Hall e Paul Desmond, eccetera” (Bruno Ferraro).

Oltre le canzoni ci sono i nomi, le voci, gli alberghi, le ville, i palmeti, i gabbiani, il mare, la costa, certi luoghi della Costa Azzurra, le bevande, i pomeriggi afosi “così mediterranei, odoravano di pino e di mirto” e non manca neanche il mondo portoghese con una citazione di Pessoa.

Momenti con un clima tra un mistero “troppo buffo” e un narratore fantasma

L’amico Bruno Ferraro vede ne Il piccolo Gatsby “una specie di mise en abyme”, una storia dentro la storia. Penso si riferisca segnatamente a quando il protagonista dice a Martine perché non rientrò la sera del dodici agosto, “è troppo buffo. Perché era San Macario. Mio padre si chiamava Macario, volevo ricordarlo da solo, lontano da casa, senza interferenze. E avevo in tasca la fotografia di Scottie”. Ma è un racconto frammentato. Già un mese e mezzo prima, ogni sabato sera, passava la frontiera in macchina e un giovane doganiere che faceva il turno di notte si era abituato all’idea che il protagonista avesse “nostalgia del caffè italiano”. Il suo piano era di far passare Scottie, che dormiva nascosta sotto un plaid, e il doganiere “non si sarebbe mai sognato di guardami la macchina”. Qui c’è un gioco a incastro dei tempi. Allora Scottie aveva quattro anni, ma il protagonista racconta questo episodio vent’anni dopo. Poi aggiunge: “E Scottie ha ancora quattro anni per noi. Ma in fondo anch’io ho l’età di allora, per te. Perché io sono irraggiungibile, in un certo senso sono eterno qui dove mi trovo. Sono oltre la curva della strada, hai capito il concetto?”. E poi, rivolto alla sua destinataria: “Tu invece no, sei rimasta su un rettilineo, esposta. Sei invecchiata. Martine, è normale. Finalmente non temerai più l’arrivo della vecchiaia: ora essa è arrivata”.

Anche la villa è invecchiata, avrebbe bisogno di essere restaurata, ma manca il denaro, “mancano gli affaretti così dubbiosi, ma così redditizi” di Perri (p. 123). Nel finale il protagonista, ormai sdoppiato, descrive persone e oggetti pervasi da “un senso di dissipazione” e suggerisce a Martine di ritirarsi “nelle stanze che furono di Scottie, così saresti più vicina al suo ricordo”. La disperazione per la morte della piccola (io l’ho interpretato così, ma di questo tragico evento non si sa niente) è controbilanciata dalla frivolezza del suggerimento di trasformare il resto della villa in un albergo, che potrebbe chiamarsi ironicamente “Au p’tit Gatsby” (p.123, “Au petit Gatsby” in altre edizioni). Così Martine potrebbe passare la vecchiaia avvolta nel rimpianto di un “futuro che anno per anno indietreggia davanti a noi”, che ci sfugge allora come ora che ci sfugge sempre. Ultima frase: “È un finale di Fitzgerald, naturalmente”.

Si ha la sensazione di avere a che fare con un fantasma che, da un posto imprecisato e in un tempo dilatato, narra questa storia, che potrebbe essere il nucleo del suo romanzo forse non scritto, raccontato una sera davanti al mare alla signora McKisco, di cui non si sa niente se non che è “un romanzo frivolmente disperato”. Tra i molti interrogativi che mi ha suscitato la lettura di questo difficile racconto (in realtà l’ho letto molte volte) c’è una piccola domanda che mi è rimasta in testa: sarà riuscito a mantenere la sua promessa?

“Te lo dico domani, rispose”. È un finale di Tabucchi, naturalmente.

 

Ringraziamenti

Per l’attenta lettura, per gli utili suggerimenti e la generosità sono in debito con l’amico Bruno Ferraro.

Ho avuto scambi di idee e discussioni con Athos Bigongiali e Federico Meini e a loro sono grato.

A Cristina Marinari, per aver provato, dopo aver letto il racconto la prima volta, la sensazione di “fascinazione onirica, come quando fai un bel sogno, però parecchio strano. Poi, quando ti svegli e provi a raccontarlo a qualcuno, è già sparito e non riesci più a descriverlo. Ti ricordi solo che è stato bello”.

Massimo Ceccanti mi ha aiutato a correggere il testo (naturalmente gli errori sono miei) e l’ha pubblicato sul suo sito, il mio debito con lui è enorme e il bello è che, con pazienza e amicizia, sempre fa come se non ci fosse.

 

Ovidio Della Croce

San Giuliano Terme, 23 settembre 2021