Fragilità

Elena Pagliarini, un’infermiera di Cremona, era stata fotografata l’8 marzo da una collega addormentata sulla scrivania dopo un turno massacrante. Due giorni dopo ha scoperto di essere positiva. Questa foto è diventata un’immagine simbolo della prima fase dell’epidemia.

A causa del Covid e della pandemia scatenata da questo invisibile “parassita” capace di vivere e riprodursi solo all’interno di cellule viventi, quelle del nostro organismo, in grado di provocare gravi malattie anche mortali, da un anno e mezzo viviamo sospesi in una situazione fino ad oggi impensabile, che sembrava superata grazie ai vaccini ma che invece si prolunga a causa delle varianti del virus. Viviamo in una sorta di bolla, coperti da mascherine, costretti spesso a fare attenzione a chi e dove incontriamo gli altri. Il 31 gennaio di quest’anno Francesco Piccolo, uno scrittore e sceneggiatore di molti film di Virzì, di Francesca Archibugi, di Daniele Luchetti scriveva su la Repubblica: “Fino a oggi, non mi sono ancora ammalato, comincio a sperare di riuscire ad arrivare ai vaccini senza che succeda; ma ci sono molte cose che sono cambiate a causa di questo virus. E ce n’è una che mi sembra intollerabile, e con la quale invece sono costretto a convivere: la pandemia mi ha insegnato ad avere paura dei miei figli.

Fino all’arrivo della pandemia, erano i miei figli, al limite, ad aver paura di me (molto al limite). Se mi incazzavo per qualcosa, se riuscivo a essere severo. Adesso sono mite, malinconico, pedante, molto pedante. E un po’ distaccato; cerco di non esserlo ma l’istinto mi porta a star lontano da loro.

Mia figlia è a Bologna. Vive con sei altri studenti in una casa. Io la ritengo, semplicemente, un’appestata. Non mi chiama mai perché è talmente impressionata dalla mia paura che teme che io pensi che se mi telefona, mi contagia.

E poi a un certo punto, mia figlia dice: potrei tornare qualche giorno. Prima sarei stato entusiasta, adesso sono molto scettico. Le dico: autocertificazioni, divieti tra regioni, pericoli, poi devi studiare, non devi seguire i corsi?, non è troppo sfiancante? Lei dice: io posso, quella è anche casa mia. Ma certo, dico, e noi siamo felici di rivederti — ma mento. Mento. Non perché non sia felice, è che ho paura di lei, dei suoi sei compagni di casa, dei fidanzati, dei parenti degli altri studenti, …. E così, torna. Le ho prenotato un tampone alla farmacia più vicina, è passata da casa e ho impedito a chiunque di avvicinarsi, e quando è risultata negativa finalmente ci siamo abbracciati. Però quando è tornata dalla farmacia l’ho abbracciata, forte, perché le voglio molto bene, perché mi manca dal giorno in cui ha deciso di andare a studiare in un’altra città; perché mi sento in colpa per averle aperto la porta e per averle detto “ciao” da lontano; in sintesi, perché mi sento in colpa di trattarla come un’appestata. Ma mentre la abbraccio, mentre abbraccio lei o mio figlio che si unisce a noi, avendo ormai il permesso di poterla avvicinare, la mia coscienza vigile non mi abbandona, e mi dice che sto rischiando. Che i ragazzi sono i più pericolosi. I figli sono i più pericolosi perché non vuoi tenerli a distanza. Li abbraccio e penso: adesso questo abbraccio mi farà del male. Non c’è un pensiero più malinconico di questo.

È questo il nuovo groviglio contorto e innaturale di sentimenti che ha creato il coronavirus: avere paura dei propri figli più che di ogni altro essere umano al mondo; sentirsi al sicuro soltanto se i propri figli non ci sono, sono lontani; ogni mattina esco e vado a lavorare ed è lì fuori che mi sento al sicuro; dentro, in casa mia, dove torno la sera, potrebbero esserci quelle minuscole particelle che mi aspettano.

Non ho il coraggio di dirlo, e del resto me ne vergognerei. E spero che loro non leggano queste parole. Ma è quello che penso. Queste storie le abbiamo già sentite, e abbiamo sentito che alcune sono finite in modo tragico. L’amore per i figli si esprime anche in questo modo, attraverso questa paura; perché non ho solo paura di ammalarmi per colpa loro, ma ho paura che loro pensino, o sappiano, che io mi sarò ammalato per colpa loro. Ho paura che loro sentano il peso dell’essere la causa di quello che è successo. In fondo non ho davvero paura di ammalarmi; ma non voglio ammalarmi per colpa di un figlio.”

Per sottrarsi a questa e a tante altre limitazioni di libertà, di benessere, ma anche e soprattutto di salute e di sopravvivenza i vaccini per fortuna sono arrivati ed è arrivato anche uno strumento, il Green Pass, che ha come scopo quello di spingere il più possibile le persone a vaccinarsi senza introdurre un obbligo che sarebbe ingestibile. Basti pensare alla difficoltà di individuare le necessarie sanzioni che dovrebbero avere un carattere generale mentre il Green Pass si limita a vietare a chi non vuole vaccinarsi l’accesso a tutte quelle occasioni, nell’ambito dello spazio aperto dalle nostre conoscenze scientifiche e degli strumenti preventivi e diagnostici a disposizione, in cui un soggetto eventualmente positivo potrebbe diventare veicolo di infezione.

Non mi aspettavo la quantità e soprattutto la qualità piuttosto scadente delle critiche anche da parte di personaggi che stimo. Non ritengo necessario argomentare su tutte le accuse di complotto mondiale sostenuto magari dalle case farmaceutiche, di attacco  alla democrazia, il ricorso a immagini irreali quali quelle della dittatura sanitaria fino, in casi di estrema incultura e mancanza di rispetto per le autentiche vittime della pazzia umana, ad arrivare a paragonare la situazione attuale all’Olocausto. In altri casi però le questioni sono più sottili e argomentate, in quei casi in cui si tira in gioco l’dea della libertà, il concetto di discriminazione, il diritto di scegliere se vaccinarsi o no come diritto assoluto strettamente vincolato all’esercizio della libertà, il richiamo all’art. 32 della Costituzione che recita “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana“. Cacciari ha sostenuto durante il programma Quarta Repubblica in una trasmissione dei primi di settembre “Tutto va bene perché c’è un’emergenza sanitaria? Tutti a sollecitare meccanismi autoritari, come sostanzialmente è l’obbligo di vaccinazione”. “Il governo è legittimato a imporre un trattamento sanitario, è vero. Se ne discute la legittimità in chiave culturale, etica e politica. Tutto va bene perché c’è un’emergenza sanitaria? E’ lecito chiedere in base a quali criteri cesserà lo stato d’emergenza? Finirà quanto non c’è più un malato in terapia intensiva o quando nessuno ha più di 37,5 di febbre? Tutti a sollecitare meccanismi autoritari, come sostanzialmente è l’obbligo di vaccinazione. Ma scherziamo? Ai virologi non frega nulla delle derive culturali e politiche di questa società? La forma a volte fa sostanza: sento usare parole come ‘stanare’ chi non si vaccina. Ma ci rendiamo conto? Se arriva l’obbligo, bene: almeno sparisce l’ipocrisia. Deve essere sempre garantito il rispetto della dignità della persona, la giurisdizione indica che la persona sia perfettamente informata. Mi domando se possiamo dire che le persone siano state correttamente informate sui vaccini e sulle loro conseguenze. Non c’è dubbio che i vaccini siano utili, ma questo non basta per dire che siamo correttamente informati. Non esiste nessuna situazione priva di rischi, le aziende farmaceutiche non conoscono però le conseguenze a medio e lungo termine dei vaccini. In queste condizioni, come si fa a imporre il green pass? Siamo già arrivati al 70-80% della popolazione vaccinata, si continui così cercando di convincere gli italiani. Quando siamo arrivati a vaccinare tutta la popolazione sopra i 40-50 anni, che bisogno c’è di vaccinare gli adolescenti, che non corrono alcun rischio reale? Non è vero che la situazione sia uguale ovunque: in moltissimi paesi non c’è obbligo di vaccinazione. In Danimarca la situazione si è normalizzata, in Germania non si sognano di vaccinare gli adolescenti”.

In una nota di Studi filosofici del 26 luglio 2021 Cacciari e Agamben avevano scritto: “La discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica. Lo si sta affrontando, con il cosidetto green pass, con inconsapevole leggerezza. Ogni regime dispotico ha sempre operato attraverso pratiche di discriminazione, all’inizio magari contenute e poi dilaganti. Non a caso in Cina dichiarano di voler continuare con tracciamenti e controlli anche al termine della pandemia. E varrà la pena ricordare il “passaporto interno” che per ogni spostamento dovevano esibire alle autorità i cittadini dell’Unione Sovietica. Quando poi un esponente politico giunge a rivolgersi a chi non si vaccina usando un gergo fascista come “li purgheremo con il green pass” c’è davvero da temere di essere già oltre ogni garanzia costituzionale. Guai se il vaccino si trasforma in una sorta di simbolo politico-religioso. Ciò non solo rappresenterebbe una deriva anti-democratica intollerabile, ma contrasterebbe con la stessa evidenza scientifica. Nessuno invita a non vaccinarsi! Una cosa è sostenere l’utilità, comunque, del vaccino, altra, completamente diversa, tacere del fatto che ci troviamo tuttora in una fase di “sperimentazione di massa” e che su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto. La Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo del 15 giugno u.s. lo afferma con chiarezza: «È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, anche di quelle che hanno scelto di non essere vaccinate». E come potrebbe essere altrimenti? Il vaccinato non solo può contagiare, ma può ancora ammalarsi: in Inghilterra su 117 nuovi decessi 50 avevano ricevuto la doppia dose. In Israele si calcola che il vaccino copra il 64% di chi l’ha ricevuto. Le stesse case farmaceutiche hanno ufficialmente dichiarato che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, non avendo avuto il tempo di effettuare tutti i test di genotossicità e di cancerogenicità. “Nature” ha calcolato che sarà comunque fisiologico che un 15% della popolazione non assuma il vaccino. Dovremo dunque stare col pass fino a quando?  Tutti sono minacciati da pratiche discriminatorie. Paradossalmente, quelli “abilitati” dal green pass più ancora dei non vaccinati (che una propaganda di regime vorrebbe far passare per “nemici della scienza” e magari fautori di pratiche magiche), dal momento che tutti i loro movimenti verrebbero controllati e mai si potrebbe venire a sapere come e da chi. Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire.

A Cacciari e Agamben si è aggiunto un folto gruppo di docenti universitari, tra cui lo storico Alessandro Barbero che ha detto durante un evento su Dante: “Un conto è dire ‘signori abbiamo deciso che il vaccino è obbligatorio perché è necessario e di conseguenza adesso introduciamo l’obbligo’. Io non avrei niente da dire su questo. E un conto è dire ‘ma no non c’è nessun obbligo per carità, semplicemente non puoi più vivere, non puoi più prendere i treni, andare all’università… ma non c’è l’obbligo nel modo più assoluto. E del resto questo serve perché il vaccino serve davvero, il Green Pass serve per questo non per indurre la gente a vaccinarsi col sotterfugio, assolutamente no per carità…’ Io credo che Dante il girone degli ipocriti avrebbe trovato il modo di riempirlo fino a farlo traboccare scegliendo tra i nostri politici di oggi”. Nell’appello dei docenti universitari firmato dallo stesso Barbero ritroviamo la richiesta di fare a meno del Green Pass viso come strumento di discriminazione, senza però l’indicazione dell’obbligatorietà del vaccino (molto probabilmente perché gli estensori hanno chiaramente visto che se è discriminatorio il Green pass ancora di più lo sarebbe l’obbligo vaccinale) mettendo solo in evidenza che molti dei docenti firmatari si sono vaccinati: «Molti tra noi hanno liberamente scelto di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid-19, convinti della sua sicurezza ed efficacia. Tutti noi, però – si legge nell’appello -, reputiamo ingiusta e illegittima la discriminazione introdotta ai danni di una minoranza, in quanto in contrasto con i dettami della Costituzione (art. 32: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”) e con quanto stabilito dal Regolamento UE 953/2021, che chiarisce che “è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono state vaccinate” per diversi motivi o “che hanno scelto di non essere vaccinate”». I professori firmatari ritengono che «in sostanza, la “tessera verde” suddivide la società italiana in cittadini di serie A, che continuano a godere dei propri diritti, e cittadini di serie B, che vedono invece compressi quei diritti fondamentali garantiti loro dalla Costituzione (eguaglianza, libertà personale, lavoro, studio, libertà di associazione, libertà di circolazione, libertà di opinione)». L’appello si conclude con la richiesta che “venga abolita e rifiutata ogni forma di discriminazione”.

Una prima e immediata risposta ancorché anticipata era stata la possiamo trovare in un articolo da Maurizio Maggiani apparso su la Repubblica del 6 gennaio 2021: “Sono un libertario, peggio, sono un anarcoide, peggio di più, riconosciuto come sedizioso di indole, in pratica un teppista ancora alla mia età non sopito. Eppure, da non crederci, provo rispetto, persino riconoscenza, per la giovane Repubblica in cui mio padre e mia madre mi hanno messo al mondo a un passo dalle macerie di un regime devastatore a cui erano sopravvissuti per un pelo. Questo nonostante tutte le tragedie, e le disgrazie, e le schifezze che di lì in poi ne sono venute.

Sì, rispetto e gratitudine, perché è alla Repubblica che devo il fatto puro e semplice di essere cresciuto sano e istruito. Tutto qui, ma questo è stato fatto. Quella Repubblica, l’unico bene che mi ha portato in dote mio padre, costruita con le mani sue, quella Repubblica fondata sulle fatiche, in una dozzina di anni, il tempo che ho fatto in tempo a crescere, si è liberata di ciò che poteva uccidermi, storpiarmi, asservirmi a una condizione di servile minorità: la tubercolosi, la poliomielite, il vaiolo, la difterite, l’analfabetismo. Già, tutto qui.

In quel tempo, ogni quartiere, borgata, frazione, anfratto e buco d’Italia aveva una scuola, nella scuola c’erano delle aule con un maestro e una stanza che si chiamava dispensario. Intanto che la maestra Fabbri ci insegnava come meglio sapeva, e comunque sapesse ci insegnava, ogni sei mesi ci metteva tutti quanti in fila davanti al dispensario, e un dottore, il dottorino, che arrivava su una Vespa dalla marmitta rotta e una barba che non riusciva ancora a farsi per bene, ci interrogava con lo stetoscopio bronchi e polmoni, ci faceva cacciare fuori la lingua e ci esplorava faringe e laringe, ci tastava le ghiandole, ci pesava e misurava, ci dava il ricostituente a tutti quanti e ai morti di fame tra noi, non pochi Cristo, non pochi, dava un biglietto. E con quel biglietto si presentavano un quarto d’ora prima della campanella nel seminterrato già sede dell’Opera Balilla e ora Patronato Scolastico, dove si sedevano davanti a mezzo litro di latte caldo, una rosetta e un paio di cubetti di orrenda cotognata ricca di vitamina, la Repubblica ci dava la colazione.

Mio padre era andato nella stessa scuola, era un morto di fame ma non era un Balilla, ragion per cui non aveva mai bevuto quel latte e addentato quel pane con la cotognata, intanto era cambiato quasi tutto ma non quel menù, adesso il biglietto lo davano anche a Giacinto che aveva il padre disoccupato, licenziato dall’arsenale militare perché l’avevano beccato con la tessera del partito comunista in tasca. E poi, quand’era il momento il dottorino ci faceva il vaccino, l’antipolio, l’anti vaiolosa, l’antitubercolare, l’anti difterica. Ed eravamo contenti perché il dottorino ci timbrava e ci pungeva senza farci male, eravamo contenti perché sapevamo.

Sapevamo perché la vedevamo con i nostri occhi la nostra fortuna; bastava esser nati uno o due anni prima, bastava venire da certe forre della montagna e essere come Lambruschi butterati in faccia di vaiolo, essere sciancati di poliomielite come Filippi, essere preso e sparire in un sanatorio, chissà mai dov’era, come Sauro. In quel tempo la tubercolosi era dappertutto, io stesso e mia sorella siamo stati presi via per un capello, e portiamo ancora il segno del suo passaggio, la piccola cicatrice che ogni volta che mi fanno un torace fa dire al radiologo, ah be’, lei è del cinquantuno.

Certo che ero contento, che se non c’era più il pericolo non ci sarebbe stata più nemmeno la tortura di andare a prendere l’aria buona in mezzo all’appennino in un paesello dove l’unica cosa che c’era da fare per un ragazzino era stare attento a non pestare le merde di vacca. Sinceramente non ricordo se farsi il vaccino fosse obbligatorio. Ricordo solo dei manifesti nell’atrio della scuola accanto a quelli con i disegni di tutte le bombe e le mine che i bambini potevano incontrare tra le macerie e gli incolti, giocarci e ammazzarsi, ricordo i francobolli della tubercolosi, per la sottoscrizione popolare della campagna vaccinale, ricordo che noi ragazzi si davano via per la strada e poi si faceva, informalmente, a mezzo con lo stato, perché sembrava più che lecito ai miserabili riuscire a prendersi ogni tanto una mela caramellata, un paio di stringhe di liquirizia, un mazzetto di duri duri.

Ma immagino che lo fosse perché non è che la maestra Fabbri ci metteva in fila per farci chiedere dal dottorino, ninin lo vuoi il vaccino? Non è che la sera a cena sentissi mio padre e mia madre discutere, cosa dici lo facciamo, non lo facciamo? Credo che per tutti loro, scritto o non scritto, fosse un dovere prima che un obbligo, e l’uno non è necessariamente l’altro, e il primo è anche di più perché è la libera e cosciente accettazione del secondo. Un dovere, né più né meno che andare a votare, lavarsi le mani prima di mettersi a tavola, lavorare duramente e bene, leggere sempre qualcosa.

E salvare i figli, salvarli dalla miseria, salvarli dalla malattia, salvarli dalla guerra, come mio padre e i suoi fratelli costruttori della Repubblica avevano giurato davanti a Dio, a Lenin e a Matteotti. Ricordo il terrore, dico proprio il terrore, di mio padre che mi ammalassi e l’identico terrore che non volessi studiare. Una Repubblica dei doveri quella, eppure non ricordo che fosse una Repubblica della mestizia; una repubblica delle ristrettezze, eppure non ho memoria che mi mancasse qualcosa di veramente necessario.

I poveri, mi rispondeva mio padre quando gli chiedevo se lo fossimo, sono quelli che non sanno darsi un destino. Forse una Repubblica arretrata e ignorante, forse erano ignoranti mio padre e mia madre, forse lo era la maestra Fabbri, forse anche il dottorino; forse è per ignoranza che alle medie il professor Troiano mi spiegava che Sabin era un eroe tale e quale Garibaldi; probabilmente non bastava a sollevarli dall’ignoranza che in casa di mio padre operaio e del suo compagno di lavoro Trippi ci fossero più libri letti e riletti di quanti oggi non ce ne sia intonsi in casa di non pochi ministri.

Eppure, arretrati e ignoranti e ingenuamente fiduciosi, e stupidamente convinti com’erano dei loro doveri, mi hanno protetto, mi hanno salvato. E colmi della loro sovrana cittadinanza hanno protetto e salvato la Repubblica più e più volte, e se ne sono andati abbastanza presto tutti quanti per risparmiarsi la mortificazione di constatare le macerie che ne sono rimaste.

Nella loro ignoranza ricordo bene come avessero in disprezzo quelli che davano a vedere che “la sapevano lunga”, una categoria in verità allora piuttosto smilza; quelli erano stupidi e basta, perché nessuno la sa mai abbastanza lunga, e venivano canzonati senza alcun rispetto, erano le macchiette del quartiere. Saperne abbastanza era quello che ci si poteva chiedere e ci si poteva aspettare, ed era quello di saperne abbastanza un dovere non poco faticoso, perché pretendeva una gran dedizione, molto parlarsi, molto ascoltare, molto pensarci su, e molta fiducia in chi dava fiducia, molto rispetto in chi usava rispetto.

Ora mi permetto la convinzione che quella Repubblica della dedizione viveva di una democrazia un po’ più decente delle sue attuali rovine così propense al facoltativo, facoltative le tasse, la fatica, lo studio, la consapevolezza, il vaccino, il bene, la dignità. E quel popolo arretrato e ignorante viveva di una condizione un po’ più signorile della plebe saputa e ciarliera che reclama di saperla troppo lunga perché le sia negata la libertà di essere quello che è. E mi permetto persino la libertà che ho ereditato dai costruttori della Repubblica di non avere nessun rispetto per la stupidità.

Condivido pienamente quanto scritto da Maggiani sia nei contenuti espliciti sia in quelli impliciti. Prima di tentare esprimere una mia opinione vorrei però ripercorrere qualche passaggio di questa terribile situazione che stiamo vivendo. Tutti oramai sappiamo che questa epidemia ha avuto e avrà conseguenze enormi sul nostro modo di vivere, sull’economia, sulla nostra vita materiale. Dai 4 ai 6 milioni di morti a livello mondiale, 130.000 solo in Italia, centinaia di migliaia di disoccupati, imprese ridotte sul lastrico, piccole attività cancellate, studenti costretti a quasi due anni di assenza da scuola, centinaia di migliaia di personae che ancora sono vittime dei postumi del covid ed è ancora difficile valutare la portata di tutto ciò e quello che potrà accadere in futuro se non si riuscirà ad arginare l’epidemia soprattutto nei paesi più poveri, dove le varianti troveranno spazi per prendere vita e diffondersi. Nei mesi passati c’è chi diceva che niente potrà continuare come prima è che questa epidemia determinerà una svolta radicale (alcuni vedevano gli aspetti positivi della possibile svolta, altri soprattutto gli aspetti negativi), chi invece si preoccupava del problema della ripresa e di ritornare alla situazione precedente. Certo è che ciò che è accaduto e sta accadendo non ha un riscontro nel passato e ha caratteristiche che nessuna situazione storica conosciuta ha avuto. È difficile analizzare quello che sta accadendo nel mondo con gli strumenti culturali tradizionali ma è ciò che possiamo fare in questo momento.

All’inizio della pandemia la gravità della situazione era già comunque chiara. Il fisico Tonelli scriveva sul Corriere della Sera del 9 aprile 2020 “Ma soprattutto penso che questa pandemia sia molto peggio di una guerra. Ha dimensioni planetarie e distrugge, assieme a migliaia di esistenze, un intero sistema di organizzazione sociale. La parola che più si avvicina a descrivere quello che stiamo vivendo è catastrofe. … La crisi economica in cui siamo entrati sarà gravissima, cambierà in profondità l’economia e l’intero modo di produzione e sconquasserà, fino alle radici, i sistemi politici. … Siamo cambiati, tutti e in profondità. È cambiata radicalmente la nostra concezione del mondo. Siamo tornati a una visione tragica dell’esistenza.” Il filosofo Alfonso Iacono su Il Manifesto del 1 aprile 2020 intravedeva anche la necessità non di riattivare il meccanismo economico ma quello di modificarlo profondamente e diceva “La pandemia ci sta insegnando semplicemente che ne possiamo uscire solo se la cooperazione prevale sulla competizione, il senso collettivo sull’individualismo, la sanità e la scuola non saranno più aziende alla ricerca del Pil, il debito pubblico può aiutare a ricostruire quello stato sociale che il neoliberismo ha smantellato. Non credo né allo stato d’eccezione né al capitalismo che pianifica. … Dobbiamo fermare la follia del fine e ricercare, nel disincanto, la poesia di un altro mondo possibile, perché quello in cui viviamo assomiglia a una danza di topi dentro una nave che affonda. Se non sarà la pandemia, prima o poi ci faranno annegare i disastri ambientali. Sì, la poesia della vita, l’unica cosa per cui valga veramente la pena di lottare e di lottare insieme per l’eguaglianza reale in un mondo diverso.” Anche Massimo Cacciari era intervenuto più volte condividendo l’idea di un cambiamento epocale ma non in una prospettiva ottimistica; in un’intervista all’HuffPost del 5 aprile 2020 aveva detto “Questa crisi irrompe nel mezzo di un processo già in atto da tempo e ne accelera straordinariamente i tempi. Aumenta la velocità con cui il sistema tecnico-scientifico si muove verso il centro della scena del mondo, liquidando la funzione preminente della politica e riducendo la spazio dell’autonomia del politico” Già all’inizio della pandemia Cacciari vedeva un pericolo per la democrazia l’ingerenza della scienza che, secondo lui, si sostituiva alla politica nel prendere decisioni fondamentali. Sempre nella stessa intervista sosteneva che: “La tecnica e la politica diventano un tutt’uno. Non si può dare l’una senza l’altra. Basta guardare come stanno gestendo la crisi tutti i Paesi del mondo. I capi di stato e gli scienziati: gli uni accanto agli altri” E ancora: “C’è chi pensa che l’arresto a cui ci ha obbligati il contagio sia un punto di svolta che può rifondare tutto, farci tornare sui nostri passi, immaginare un altro mondo possibile, costruire tutto daccapo. È un’illusione ottica. Siamo noi che ci siamo fermati, non i processi dentro cui siamo immersi da anni … Ci sarà una strepitosa accelerazione verso il capitalismo politico e una riduzione ai minimi termini degli spazi di rappresentanza della democrazia tradizionale”.

A sua vola il filosofo Habermas si era posto un problema analogo nel momento in cui gli era stato chiesto in un’intervista a la Repubblica del 12 aprile 2020 se la dichiarazione dello stato di emergenza e le sue conseguenze possono mettere in crisi la democrazia? Habermas aveva risposto “la limitazione di un gran numero di libertà importanti deve rimanere un’eccezione strettamente contenuta. Ma l’eccezione è di per sé, come ho appena cercato di dimostrare, richiesta dal diritto primario alla protezione della vita e dell’integrità fisica. In Francia e in Germania non c’è motivo di dubitare della fedeltà alla Costituzione da parte dei governanti. Se Viktor Orbán coglie la crisi del Covid 19 come un’opportunità per chiudere definitivamente la bocca all’opposizione, ciò va spiegato con la lunga involuzione autoritaria del regime politico ungherese, che il Consiglio europeo e, soprattutto, i cristiano-democratici europei hanno guardato con indulgenza». In questo passo dell’intervista ad Habermas viene toccato un tema importantissimo, quella della durata dell’emergenza come fattore in grado di distinguere la legittimità o meno delle limitazioni di libertà introdotte. Ma come decidere quando terminerà l’emergenza quando il fattore determinante è un virus che muta, si adatta alla situazione che trova pur di sopravvivere? È possibile stabilire quando terminerà una guerra? Habermas introduce un altro elemento più complesso, più ambiguo: la tradizione democratica, la cultura prevalente in quel determinato paese. È sufficiente la fiducia nei governanti e nella tradizione democratica? Possiamo fare altrimenti? Forse no, forse ha ragione Cacciari che pone il problema e forse dovremmo fare molta attenzione, ma ancora possiamo fare altrimenti per affrontare questa situazione completamente nuova?

Un altro fisico, Rovelli, aveva espresso un’opinione diversa rispetto a quella di Cacciari sul Corriere della Sera del 2 aprile 2020: “È rassicurante vedere come governi e pubblico, ora, nel momento del pericolo, ascoltino la scienza. La conoscenza è il miglior strumento che abbiamo. Ci permette di evitare errori gravi, come quelli che commettevamo nel medioevo quando per scongiurare la peste facevamo processioni, col risultato di infettare tutti. Ma mai come adesso vediamo che la scienza non sa, ovviamente, risolvere tutti i problemi. Il nostro splendido sapere si arrende davanti a una cosa che è poco più di un granello di polvere. La scienza è la nostra forza, l’utensile migliore che abbiamo trovato, teniamocela cara, ma restiamo fragili, in una natura indifferente e immensamente più grande e più forte di noi.” Sarà la scienza a dirci quando avrà termine l’emergenza? In una comunità che funziona credo di sì, che la scienza dovrebbe fornire alla politica gli strumenti per decidere.

Un primo tentativo di risposta riguarda la necessità di riconoscere ed accettare la nostra fragilità, una caratteristica strettamente legata al nostro essere umani che però tentiamo di nascondere e di occultare in tutti i modi. Sempre Rovelli nell’articolo sopra citato dice: “La tentazione è di dare sempre colpe a qualcuno: ai politici che dovevano svegliarsi prima, alla Cina che doveva dare l’allarme prima, all’impreparazione nonostante gli avvertimenti, o quant’altro. Ma la realtà è che questo disastro non ha colpevoli. Abbiamo imparato a proteggerci da tante cose, ma siamo nelle mani della natura, che a volte ci riempie di regali, a volte ci maltratta brutalmente, con sovrana indifferenza.

Anche il Papa nell’Omelia del 27 marzo 2020, sotto la pioggia e di fronte a una piazza San Pietro deserta aveva detto: “Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda … La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità.”

Ancora Rovelli: “Non siamo i padroni di tutto, non siamo immortali: siamo, come siamo sempre stati, foglie che il vento d’autunno spazza via. Cerchiamo di allungarla, questa vita, combattiamo insieme con tutte le nostre forze: questo stiamo facendo tutti insieme, ed è una bellissima battaglia. Ma è questo ciò che stiamo facendo, non combattendo contro la morte: stiamo  regalandoci un po’ di vita in più, perché la vita è bellissima, e viverla è ciò a cui diamo più valore.” E fino ad oggi, fino a quando qualcuno non sarà in grado di dimostrare che la pandemia è scoppiata a causa dei nostri comportamenti, della ricerca senza freni di profitto che ha sconvolto gli equilibri della natura come invece sta accadendo per il clima, quello di Rovelli mi sembra l’atteggiamento più giusto, la risposta più chiara a chi pensa non solo alle conseguenze  del nostro atteggiamento verso la natura e ancor più che pensa a complotti, alla volontà di gruppi di sottometere o addirittura di distruggere l’umanità.

Il fisico Guido Tonelli sul Corriere della Sera aveva riaffermato lo stesso principio: “La pandemia ci insegna che ancora oggi «Vivere è molto pericoloso», la grande verità di Riobaldo, il cangaceiro protagonista di Grande Sertão di Joao Guimarães Rosa. Nella dura realtà dell’altipiano arido del nord-est del Brasile, i personaggi del romanzo sanno che la vita è dura e piena di rischi ma affrontano a viso aperto le difficoltà dell’esistenza e non si tirano mai indietro. I nostri padri e i nostri nonni hanno vissuto epoche nelle quali la tragedia incombeva sulle loro esistenze in ogni momento. E questo li ha resi resilienti e determinati, consapevoli che nella vita tutto costa sforzo e fatica. Che i risultati raggiunti non vanno considerati mai garantiti per sempre e che bisogna lottare per migliorare la condizione di tutti.”

Ho l’impressione che è da qui che bisogna partire perché, come dice Tonelli “Abbiamo cresciuto una larga parte dei nostri ragazzi nell’illusione che il benessere fosse un diritto universale e che comunque ci dovesse essere qualcuno, famiglia o stato, a garantirlo. Abbiamo sparso a piene mani l’idea che la vita fosse un film di Walt Disney o un Luna Park. Che toccava sempre ad altri precipitare nel baratro, non a noi, esseri onnipotenti resi quasi immortali dagli ultimi ritrovati della tecnica. Salvo scoprire che quel mondo, dorato in superficie e nel quale tutto sembrava possibile, nascondeva ingiustizie immani, produceva in tutti i paesi la devastazione della sanità pubblica e lasciava senza protezione e senza un futuro le fasce più deboli della popolazione”. La natura umana è invece una natura fragile, fragilità che solo attraverso la collaborazione, la cooperazione può essere attenuata. Individuo e comunità non sono due elementi antitetici e la comunità non è neppure il frutto di una rinuncia da parte dell’individuo alla sua natura sulla base della spinta della paura, del timore, come pensavano pensatori come Machiavelli, Schmitt, Canetti ma soprattutto e in modo più netto Hobbes, una rinuncia collegata a una delega assoluta di esercizio del potere allo stato, titolare della rappresentanza della comunità. È la paura dell’altro, di essere sopraffatto, secondo il filosofo inglese, che spinge l’uomo ad accettare la convivenza con i loro simili vissuta come male minore. È ancora la paura delle punizioni che gli uomini rispettosi delle leggi. Secondo Hobbes l’essere umano è un individuo sollecitato da spinte che non lo rendono socievole. Solo la paura lo spinge ad accettare le regole, in sua assenza, a eluderle. Se fosse così la comunità, la società sarebbe essenzialmente un’agenzia per gestire il terrore visto come risorsa capace di costituire il vincolo sociale. Credo che la paura sia un debole fondamento per la società. Individuo e comunità sono il verso e il recto dello stesso foglio semplicemente perché la società non è il frutto di spinte istintuali represse ma della dimensione culturale che contraddistingue l’uomo da tutto il resto della natura, pur essendone parte.  Quando si perde di vista ciò, si perde di vista quello che distingue l’essere umano da tutto il resto dell’Essere inteso come natura, esistenza indifferenziata, sia che a prevalere sia l’individuo o la comunità in tutte le sue forme.

Il tema della libertà credo debba essere affrontato a partire dalla natura duplice dell’essere umano, quella di individuo unico e irripetibile e di parte di una comunità. Troppo spesso la libertà è stata vista come spazio illimitato che si apre di fronte a un individuo pensato come contenitore di pulsioni e di istinti che trovano nell’altro semplicemente una barriera, un ostacolo. La norma diventa l’elemento che materializza l’ostacolo, un elemento imposto contro cui lottare, e se possibile da eludere in nome della libertà intesa come spazio illimitato da occupare. Ma se si cambia prospettiva, se invece dell’individuo isolato al centro mettiamo l’insieme degli individui raggruppati in una comunità, se invece dell’identità individuale come fatto privato di ciascuno mettiamo sempre l’individuo ma come membro di gruppi da cui trae parti della propria identità, alimento della propria libertà nella misura in cui la stessa libertà è riconosciuta agli altri come patrimonio della comunità allora le cose cambiano, si fanno più complesse, necessitano di mediazioni, di negoziazioni, di accordi, di processi pratici per risolvere conflitti, divergenze. Non si tratta di mettere la comunità davanti all’individuo, troppe tragedie si sono consumate in nome di un principio del genere, ma di riconoscere che la comunità si realizza nell’individuo e che l’individuo è tale solo nella comunità. L’alternativa non è l’apertura dei cancelli della libertà, ma la creazione di un terreno dove prevale il diritto del più forte e dove viene annullata la libertà, sostituita dalle leggi della natura che sono indifferenti a libertà, tirannia, discriminazione. La libertà stessa non è una dimensione naturale ma culturale. La libertà non è neppure uno stato, è piuttosto un processo senza fine, una ricerca continua in cui prevale la prassi, l’agire rispetto alla dimensione teoretica. La libertà è legata al fatto che, non essendo predeterminati da meccanismi biologici (o almeno così sembra), per agire dobbiamo scegliere sulla base di ciò che chiamiamo cultura. Non è possibile dare una definizione di libertà perché non è un oggetto, uno stato definito. Solo all’interno della cultura e dell’agire si è liberi o schiavi. Tutto ciò non significa cadere nell’immagine opposta dell’essere umano, quella che, sulla scia di Rousseau, vede l’uomo non civilizzato come immerso in uno stato di quiete distrutto dalla civiltà, dalla cultura. L’essere umano è un essere caratterizzato dalla sua dimensione culturale che ingloba quella naturale. È questo processo che crea la libertà come caratteristica specifica dell’uomo dotata di due dimensioni inseparabili, quella dei diritti e quella dei doveri, della libertà e della responsabilità. Non esistono diritti senza un contesto storico e culturale in cui possono essere esercitati e invocati. Neppure il più potente di questi diritti risulta assoluto, il diritto alla vita. Se qualcuno minaccia la mia vita, posso difendermi e uccidere l’altro senza compiere un reato. Il soldato che in guerra uccide il nemico non è un assassino, talvolta invece diventa un eroe. I diritti non sono qualcosa di astratto o naturale come invece pensavano i giusnaturalisti e tutte le volte che vengono negati non significa che siamo di fronte a dittature, a tiranni.

La Costituzione cui spesso ci si appella quando si reclama il rispetto dei diritti e della libertà, non fa che sottolineare lo stretto legame tra diritti e doveri, tra libertà e limiti entro i quali la libertà stessa può trovare la sua realizzazione perché nessuna libertà può essere semplicemente la mia libertà senza essere la libertà di tutti, e la libertà di tutti è plurale, riguarda i molti aspetti nei quali può materializzarsi, si esprime attraverso una molteplicità di diritti talvolta in conflitto tra loro, conflitti che debbono essere risolti a livello politico, con decisioni prese con equilibrio, valutando con l’aiuto di tutte competenze scientifiche necessarie e tenendo presenti sia gli interessi in gioco sia le conseguenze di tali decisioni. Lo spazio in cui la libertà così intesa può realizzarsi è la comunità retta da regole condivise, frutto di mediazioni, negoziazioni, accordi, conflitti gestiti e resi con ciò non distruttivi. La libertà è unita indissolubilmente alla responsabilità, al rispetto delle norme prodotte entro una comunità aperta al dialogo, al confronto ma anche ancorata al rispetto delle norme e alle modalità con cui vengono prodotte sulla base di principi fondamentali condivisi.

L’articolo 32 della Costituzione cui si appellano sia i critici del Green Pass sia i contestatori dell’obbligatorietà del vaccino mi sembra molto chiaro. Il primo comma recita: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti, mettendo sullo stesso piano il diritto individuale e l’interesse della collettività, due elementi che non possono essere in contrasto e se non in base ad una visione astratta della libertà, come spazio illimitato concesso al singolo visto nel suo stato di soggetto solitario.

Il secondo comma recita: Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Mi sembra che anche in questo caso la Costituzione rimandi a quei principi che ricordavo prima facendo ricorso alla norma (la legge come in effetti è stato fatto per introdurre il Green Pass) come strumento per affermare non un divieto ma un diritto, quello di non ammalarsi di fronte ad una malattia contagiosa che mette in pericolo la collettività (perché di questo si tratta e non di una malattia che riguarda soltanto il singolo individuo come può essere un tumore, la dipendenza da droghe e così via) e quindi di un insieme di libertà che debbono esser garantite, quelle di poter recarsi al lavoro, a scuola, al cinema, a teatro, a fare sport.

Per quanto riguarda il secondo paragrafo del secondo comma mi sembra che vaccinarsi e fare tamponi non ledano assolutamente il diritto al rispetto della persona umana in quanto sono pratiche usuali della medicina da decenni. Si può solo pensare, come ricordano alcuni, a pratiche discriminatorie nel momento in cui si vieta a chi non si vaccina o si sottopone a tamponi alcune possibilità di agire, muoversi, spostarsi, ma dobbiamo chiederci quando siamo di fronte a una discriminazione. Il primo comma dell’articolo 32 mette sullo stesso piano il diritto individuale e l’interesse della comunità. Una discriminazione è quindi un comportamento giuridico che viola entrambi gli elementi, ma con il Green Pass ambedue vengono rispettati tutti e due, il diritto individuale (e non solo alla salute ma anche quello all’istruzione, al lavoro, allo sport, alla fruizione della cultura strettamente connessi al diritto alla salute) e l’interesse collettivo, a meno che non si pensi che la pandemia come a una fantasia o al frutto di un complotto ordito per limitare le nostre libertà o che i vaccini siano una misura inefficace, illogica, inutile per contenere la diffusione del contagio. Mi sembra che la tesi della natura fantasiosa della pandemia sia difficile da sostenere (a meno di non dire che i morti, i ricoverati in terapia intensiva, gli ammalati sono il prodotto della fantasia o dell’interesse dei medici, con un inaccettabile negazione delle sofferenze e delle tragedie di centinaia di migliaia di persone), così come quella del complotto, tutta da dimostrare con evidenze, dati, e quella dell’inefficacia dei vaccini, almeno alla luce delle informazioni che abbiamo a disposizione. Alcuni dicono però che i vaccini proteggono dalla malattia ma non dall’infezione e perciò sono inutili come misura preventiva nei confronti della diffusione del contagio. È vero, ma proviamo a pensare a cosa sarebbe successo senza i vaccini, proviamo a ricordare cosa abbiamo dovuto fare per rallentare la diffusione del contagio nel marzo aprile 2020 o nell’autunno dello stesso anno in presenza di un virus molto meno contagioso dell’attuale.

Inoltre è indubbio che, se il flagello della pandemia sta minacciando la tenuta fisica della popolazione rivelando la fragilità dell’essere umano, esso sta mettendo anche in discussione anche alcuni valori e alcune norme di comportamento della società investendo in modo brutale anche il rapporto tra verità e menzogna, tra il vero e il falso delle notizie che si diffondono sul territorio. Non è una novità perché già due secoli fa il vero obiettivo polemico e ironico di Manzoni erano le false opinioni e credenze che riguardano tutti i gruppi sociali quando parlava della «voce del popolo» che, assecondata dalla dabbenaggine dei governanti, restii ad ammettere i fatti per ragioni politiche ed economiche, sulle prime non vuol credere alla peste.”. Il problema è che oggi la diffusione di notizie false e ingannevoli è enormemente amplificata e in grado di mettere in crisi la consapevolezza di un gran numero di cittadini chiamati a fare i conti con il tema della fragilità dell’esistenza umana. Albert Camus nel suo romanzo La peste, la storia di un’epidemia nella città di Orano, nell’Algeria francese, aveva affrontato il problema per certi aspetti analogo a quello che stiamo vivendo del rapporto tra conoscenza scientifica e forme di pensiero dogmatico. Ne La peste il motivo della malattia va oltre la contingenza storica, per soffermarsi sulla tensione speculativa fra medicina e una forma di credenza religione espressa dalle tesi contrastanti di cui sono portavoce Bernard Rieux, un medico ateo, e Paneloux, un gesuita. Attraverso questi due personaggi. Camus mette a confronto lo spirito critico che caratterizza la scienza con la sua indipendenza di pensiero e l’elemento dogmatico che è proprio di chi fa riferimento soltanto alle proprie idee e a ciò che può rafforzarle, operando censure nei confronti di tutto ciò che può metterle in crisi, ricorrendo a varie forme di occultamento che possono produrre anche forme di violenza sia fisiche che psicologiche. Certo le idee di Paneloux sulla peste sono molto diverse da quelle degli attuali no – vax o da quelle dei sostenitori del complotto. Un elemento però li accomuna, la chiusura nei confronti del rapporto con la realtà, del dialogo con chi la pensa in un altro modo, avvinghiandosi, quando non sono il frutto di opportunismo politico, alla struttura dogmatica delle idee che si arroccano su se stesse. Ciò che è interessante nella vicenda del gesuita raccontata da Camus è il processo di sgretolamento di tale struttura dogmatica. Paneloux espone due prediche che rivelano il mutamento nel suo atteggiamento verso la malattia. Nella prima predica il gesuita ricorre alla peste e alle immagini terrificanti da essa veicolate per ridestare la fede degli oranesi: il gesuita interpreta la malattia come una meritata punizione collettiva come è vista nella Bibbia dove la peste è infatti il simbolo della punizione divina nei versetti in cui la malattia è ricordata fra le maledizioni promesse da Dio a coloro che non avrebbero ascoltato la sua parola.

Dopo la prima predica, Paneloux affianca Rieux, che invece vede la peste sul piano di un fenomeno naturale e storico, e, di fronte alla morte tragica di un fanciullo, vede vacillare la sua certezza e mette in dubbio la sua fede almeno nella forma in cui era stata proposta nella prima predica. Interessante è il fatto che il motore del cambiamento sia un sentimento di pietà per un proprio smile, per un bambino che diventa più forte dell’armatura dogmatica che fino a quel momento aveva reso impermeabile il pensiero del gesuita. Il tono della seconda predica pronunciata dal sacerdote nella Cattedrale di Orano è molto diverso da quello del primo sermone. Paneloux afferma ora un fatalismo attivo, basato sulla capacità di accettare la fragilità e la conseguente incomprensibilità di alcuni eventi propri della vita umana, in primo luogo della malattia e della morte, e la necessità di affrontarli insieme, con partecipazione, offrendo il proprio aiuto, non tirandosi indietro. Scosso dall’agonia degli esseri umani e, soprattutto, da quella di un bambino, Paneloux perde la sua enfasi oratoria; esordisce dicendo: “che la peste era con noi ormai da lunghi mesi e che adesso che la conoscevamo meglio per averla vista sedersi tante volte alla nostra tavola o al capezzale di coloro che amavamo, camminare accanto a noi e aspettare il nostro arrivo nei luoghi di lavoro, adesso forse avremmo potuto recepire meglio quel che ci diceva senza sosta e che, nella sorpresa degli inizi, era possibile non avessimo ascoltato con la dovuta attenzione. … Non si poteva dire: “Questo lo capisco; questo invece è inaccettabile,” bisognava saltare dentro l’inaccettabile, che ci era offerto proprio perché facessimo la nostra scelta. La sofferenza dei bambini era il nostro pane amaro, ma senza quel pane la nostra anima sarebbe morta di fame spirituale. … Sapeva per certo, lui, che qualcuno avrebbe pronunciato la terribile parola fatalismo. Ebbene, non gli faceva paura, quel termine, se solo gli avessero consentito di unirvi l’aggettivo “attivo”. … Se si doveva prestar fede al cronista della grande peste di Marsiglia, solo quattro degli ottantuno religiosi del convento della Mercy sopravvissero alla febbre. E di questi quattro, tre fuggirono. Così parlavano i cronisti, e per mestiere non erano tenuti a dire di più. Ma leggendo questo, tutti i pensieri di padre Paneloux andavano a colui che era rimasto da solo, nonostante i settantasette cadaveri, e soprattutto nonostante l’esempio dei tre confratelli. E il padre, battendo il pugno sul bordo del pulpito gridò: “Fratelli, noi dobbiamo essere colui che rimane!

La proposta del gesuita è un’accettazione della malattia a fianco della lotta contro di essa. Lo stesso problema che ha posto Papa Francesco di fronte all’epidemia di coronavirus nell’omelia del 27 marzo 2020 nella deserta piazza San Pietro “La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.” Concludendo con una lode a coloro “che hanno compreso che nessuno si salva da solo.”. E oggi non tirarsi indietro significa accettare di prendersi le nostre responsabilità, di farci inoculare il vaccino, di fare i tamponi quando è necessario, di isolarsi quando è possibile rischiare di infettare qualcun altro, di portare le mascherine in nome di quella pietà che dobbiamo ai nostri simili, per tutti quei morti e per il modo in cui sono morti, soffocati, soli, chiusi in un casco e/o con un tubo infilato in gola, circondati da marziani invisibili, per tutti coloro che sono stati ricoverati nelle terapie intensive, che si sono ammalati ma anche per poter muoversi, andare a lavorare, a scuola, al ristorante, nei cinema, nei teatri. Mi sembra invece che si stia diffondendo un a tendenza a dimenticare, a dimenticare i giorni della clausura, le colonne di camion che trasportavano le bare, a dimenticare anche lo spirito di solidarietà che spingeva ad affacciarsi dai balconi, a lodare quei medici e quegli infermieri che ora vengono offesi, minacciati, aggrediti.

Un’altra questione posta in modo particolare da Cacciari è quella del rapporto tra scienza e politica. Cacciari teme che aumenti: “la velocità con cui il sistema tecnico-scientifico si muove verso il centro della scena del mondo, liquidando la funzione preminente della politica e riducendo la spazio dell’autonomia del politico”. In sostanza il pericolo è che la scienza si sostituisca alla politica nel prendere le scelte fondamentali nella guida della società. Sinceramente non credo che questo sia avvenuto durante le fasi dell’epidemia che abbiamo attraversato. Certo il problema esiste ed è di difficile soluzione soprattutto perché i problemi che si stanno affacciando sull’orizzonte mondiale sono di una complessità enorme e richiedono conoscenze e competenze specifiche molto elevate. Ila gestione dell’epidemia ha evidenziato ciò, ma se spostiamo lo sguardo sui problemi che ci attendono quali il riscaldamento del clima, i rifiuti, la necessità di energia, acqua, cibo certamente la questione del rapporto tra scienza e politica è una tematica ineludibile. La pandemia ci ha insegnato che la politica non può fare a meno della scienza, e la scienza deve rimanere uno strumento per effettuare le scelte fondamentali. Perché rimanga uno strumento occorre che rimanga libera da condizionamenti sia politici che economici. Nello stesso tempo deve essere rivalutato il ruolo della competenza che vuol dire in sostanza che non tutte le opinioni hanno lo stesso valore. E questo vale anche sul piano delle questioni giuridiche poste sull’obbligatorietà del Green Pass e sulla ventilata obbligatorietà del vaccino. Mi sembra corretta la presa di posizione del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia,  presentata al Teatro Carignano di Torino nel momento in cui afferma “I 300 professori che hanno firmato la lettera contro il Green pass, tra cui il professore Alessandro Barbero, non rappresentano l’università, ma loro stessi. Come cittadini. Come lo siamo tutti. La gente potrebbe pensare che si tratti di professori esperti di quella materia, invece non è così, per esempio tra loro so esserci una professoressa di musica da camera. Bellissima cosa la musica da camera, ma cosa c’entra con la pandemia? Oggi è vero ci sono tanti costituzionalisti che dicono la loro sull’articolo 32 e in fondo un pò lo siamo tutti in quanto cittadini. Ma questo non significa essere esperti no?“. L’essere professori universitari non colloca su un gradino diverso rispetto a questioni diverse dal campo in cui un docente è specialista, altrimenti saremmo di fronte in questo caso ad una discriminazione. Tutti liberi di dire la propria ma il valore delle opinioni non si misura sulla base della collocazione sociale ma su quello della competenza rispetto allo specifico problema e sulla base della distinzione responsabilità riguardo alle scelte che non possono non spettare alla politica, sempre che la politica sia in grado di dialogare con i bisogni della comunità e con le competenze degli specialisti.

Occorrerebbe inoltre una consapevolezza più approfondita del concetto di competenza e della natura del pensiero scientifico, dei suoi tempi. In un testo del 1929 (II compito della storia della cultura) riportato nella premessa al testo di Tomaso Montanari Il Barocco, 2012 Johan Huizinga, diceva riferendosi alla storia, che altro non è che una delle forme con cui si manifesta il pensiero scientifico: “Lo storico specialista, rendendosi conto di quanto lavoro critico è necessario per definire anche la più piccola particolarità, e ricordandosi di quanto la materia sia multicolore e complicata, dispererà anche troppo spesso della capacità di adempiere al suo ruolo culturale, e scuoterà la testa e forse si nasconderà dietro alla seguente illusione: «Per trattare come si deve questo quesito, mancano ancora del tutto i necessari studi preliminari». Dopodiché chiude la porta alla cultura e decide di non essere architetto, ma semplice scalpellino, e di continuare a spaccare pietre e cuocere mattoni.” Poi continua introducendo la controparte, il dilettante: “Qui interviene con grande prontezza la mano veloce del dilettante, che intravvede tutte le prospettive necessarie a comprendere rapporti complessi. Il sentimento, che comincia a farsi sentire tanto facilmente nella vita dello spirito, crea in lui l’illusione di avere dei pensieri ordinati. Lo spirito moderno non esige, per comprendere, nessuna formulazione di pensieri logici e neppure di un fondamento esplicito di concetti ben definiti. Con una visione profetica Tocqueville ha previsto il formarsi di questo abito mentale. «I popoli democratici – scrive (e mi si conceda che per lui démocratique significa semplicemente “moderno”) – amano appassionatamente i termini generici e le parole astratte, perché queste espressioni amplificano il pensiero e permettono di racchiudere molti oggetti in poco spazio, aiutano il lavoro dell’intelligenza … Dunque gli uomini che abitano nei paesi democratici hanno spesso dei pensieri vacillanti, hanno bisogno di pensieri molto ampi per circoscriverli». Ecco qui il razionalista classico che registra i sintomi premonitori della scomparsa dal pensiero di ogni razionalità”. Il dilettante è colui che semplifica pensando di aver trovato un sentiero scorciatoia, riduce i tempi del lavoro necessario adattandoli alle sue esigenze e non a quelle dell’oggetto che ha di fronte, pone domande e vuole risposte senza tener conto dei tempi e talvolta dell’inesistenza della possibilità di ottenere una risposta per quel tipo di domanda o per come quelle domande sono poste quali sono ad esempio le domande che riguardano le dimensioni etiche. Che risposte dare ad esempio a problemi come quelli che la pandemia ha posto soprattutto nella sua prima fase. Che cosa dire e che cosa fare in tutte quelle situazioni in cui la carenza di risorse porta a dover fare scelte drammatiche. Se non si può aiutare tutti, chi aiutare? È lecito scegliere? Di fronte al problema della crisi economica e del rischio di povertà diffusa, di morte per povertà, si può pensare di tenere le fabbriche chiuse? Che cosa dire dell’idea di accettare un certo numero di morti pur di raggiungere l’immunità di gregge ventilata dal premier britannico Boris Johnson? Si può accettare di risolvere il problema sanitario confidando nel raggiungimento dell’immunità di gregge anche sapendo che ciò costerà molte vite che possono essere salvate con l’isolamento sociale? “Quale rapporto tra le esigenze dell’economia e quelle della salvaguardia delle vite dei più fragili?”

Habermas, il filosofo tedesco della Scuola di Francoforte in un intervista a la Repubblica del 12 aprile 2020 ha affermato: Se il numero di pazienti ricoverati è superiore a quello delle strutture di cura disponibili nei reparti di terapia intensiva, i medici dovranno inevitabilmente prendere una decisione tragica, perché in ogni caso immorale. Ancora: Ma quale medico “soppeserebbe” il “valore” di un uomo contro il “valore” di un altro, erigendosi in tal modo a padrone della vita e della morte?

Sempre Habermas nella stessa intervista ha posto la seguente questione Si deve accettare il rischio di sovraccaricare il sistema sanitario e, quindi, aumentare il tasso di mortalità per far ripartire prima l’economia e ridurre così anche la miseria sociale causata dalla crisi economica?

Giustamente Habermas definisce questi come problemi tragici perché non hanno una risposta sul piano teorico mentre richiedono una risposta sul piano pratico. I filosofi sanno che non tutte le domande hanno una risposta. Wittgenstein nel Tractatus distingueva tra ciò di cui si può predicare il vero e il falso, cioè il linguaggio descrittivo e il linguaggio della scienza (che in modo azzardato definiva la totalità delle proposizioni vere) e il mistico all’interno del quale collocava i valori, l’etica e l’estetica, concludendo che non si può parlare di tutto. «Ciò che si può dire può dirsi con chiarezza»; concludendo poi che: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Dovremmo quindi tacere di tutto ciò su cui la scienza resta silenziosa anche se ciò di cui la scienza non parla è ciò che più conta per noi che vogliamo risposte certe per prendere decisioni. E allora non possiamo tacere ma dobbiamo parlare, discutere, argomentare confrontarci per poi decidere, magari nel più terribile isolamento, di fronte alla sofferenza altrui. E le decisioni debbono essere prese, non si può farne a meno, non ci si può liberare dalla condanna della libertà, e a prenderle deve essere chi è stato chiamato a decidere per ruolo o funzione anche quando non esistono risposte sul piano teoretico o della conoscenza. È in queste occasioni forse che rendiamo conto di essere liberi, ma comprendiamo anche che se la libertà non è esercizio incontrollato dell’arbitrio, sopruso, puro potere derivante dalla sua concezione come spazio illimitato di fronte al singolo individuo, allora può essere un fardello. La libertà è anche questo, non è solo o sempre potere, è anche una condanna ad agire in situazioni tragiche, come, diceva Sartre, in cui siamo soli e senza un supporto teoretico o culturale. E sulla base di tale concetto di libertà si può anche misurare la differenza tra il Green Pass e l’obbligo vaccinale. Certo si può dire che il Green Pass introduce un obbligo nascosto, un’ipocrisia, ma lascia ancora la possibilità di scegliere, di dialogare, di convincere pur introducendo un richiamo forte alla responsabilità.

Aggiungerei alle osservazioni sul moderno e sulla democrazia anche la diffidenza che oggi regna intorno al ruolo delle élite. Sta prevalendo l’idea che nella democrazia che tutti siano uguali in ogni campo, settore o ruolo. Non è così. Le opinioni non hanno lo stesso peso perché siamo in democrazia. Anzi, la base delle democrazie sono le buone élites in grado di esprimere competenza ed equilibrio, di operare evidenziando comportamenti virtuosi, di mostrare con l’esempio quali sono i principi e i valori su cui la comunità deve reggersi. Ciò che manca oggi sono queste élites e il controllo critico da parte dei cittadini. L’idea che non esistano gerarchie nel campo delle idee e di chi le propone o dei valori è estremante pericolosa. Tutto può essere accettato in nome di due principi che hanno al loro interno una complessità terribile. Il principio democratico che se applicato nella sua interpretazione dilettantesca porterebbe a legittimare la vittoria anche di quei partiti che hanno come obiettivo la demolizione della democrazia, e il principio di equivalenza dei valori di tutte le culture e di tutte le idee che avrebbe come conseguenza che dovremmo accettare la persecuzione delle donne da parte dei Talebani e l’idea che la terra può essere piatta. Non esistono diritti naturali ma non tutti i valori sono sullo stesso piano. Un diritto innato esiste anche se non è riconosciuto dagli uomini? Ci sono valori che una volta affermati sul piano culturale non possono essere ridotti ai valori di chi li ha prodotti. La democrazia, la conoscenza, la dignità e l’integrità della persona sono beni fondamentali e fragili che non possono essere messi in percolo dai “dilettanti” del pensiero, da coloro che contrabbandano il relativismo a valore come valore “universale”. Dobbiamo affrontare con serietà da un lato la necessità di trovare il modo di formare delle vere élites e dall’altro di metterle di fronte ad una cittadinanza attenta, critica ma competente del suo ruolo fondamentale nella salvaguardia delle risorse della comunità, una cittadinanza consapevole della natura dei valori e dei diritti, di come funziona la scienza, delle sue potenzialità e dei suoi limiti. Per questo non è possibile stare in silenzio di fronte a ciò che sta accadendo, alle discussioni autentiche perché legate a problematiche reali e a quelle non autentiche perché animate dall’ignoranza, dal dogmatismo, dall’opportunismo.

Leggendo le parole di Huizinga mi viene inoltre in mente un altro libro degli anni Ottanta, Tempi storici, tempi biologici di Enzo Tiezzi, un chimico ambientalista morto da una decina di anni. Tiezzi si riferiva al rapporto tra i tempi con cui l’uomo si impossessa del mondo e lo trasforma consumando le sue risorse (tempi storici) e i tempi della natura necessari per ricostruire quel patrimonio, per conservarlo dinamicamente (tempi biologici). Oggi stiamo vivendo una situazione analoga. La pandemia agisce all’interno di tempi storici, la scienza, la medicina hanno bisogno di tempi biologici. È già stato un miracolo che la scienza sia riuscita a trasferire dai tempi biologici ai tempi storici l’invenzione, la sperimentazione, la produzione e la diffusione dei vaccini. È un trasferimento che ha i suoi costi in termini di incertezze, conoscenze. Ma anche i suoi vantaggi nella lotta contro questa pandemia. Molti di coloro che si schierano sul fronte della resistenza al vaccino e al Green Pass (con argomentazioni spesso contraddittorie come quelle che chiedono in sostituzione del Green Pass l’obbligatorietà del vaccino) non tengono conto dell’asimmetria dei tempi, asimmetria che ha un ruolo anche nella scelta del Green pass rispetto all’obbligo vaccinale che, per essere introdotto, richiederebbe tempi più lunghi, una legge, la necessità di individuare soluzioni per sanzioni efficaci e applicabili anche laddove è difficile applicarle come nei confronti dei pensionati, dei disoccupati, dei lavoratori autonomi. Inoltre è facile dimostrare che mentre il Green Pass lascia uno spazio alla discussione, al confronto, alla possibilità di convincere, l’obbligo vaccinale tenderebbe a chiudere questo spazio. Alla luce di ciò è difficile capire chi sostiene che è necessario il dialogo per convincere gli indecisi e si schiera per l’obbligo vaccinale. Altra cosa è invece chiedere l’obbligo vaccinale non perché viene considerato uno strumento più efficace dal punto di vista dl contrasto alla pandemia ma perché si vorrebbero certezze dove già di per sé certezze non possono esserci e ancor meno in una situazione di contrazione dei tempi. Mi sembra che chi  protesta chiedendo di introdurre l’obbligo vaccinale non in nome di un principio scientifico di salute pubblica ma per far slittare la responsabilità del vaccino su un soggetto altro, lo stato, che dovrebbe trasformarsi in una sorta di impresa assicurativa o in un certificatore di certezze che non esistono, stia tentando di evitare di riconoscere che in una situazione come questa viene chiesto a tutti di assumersi le proprie responsabilità come individui che fanno parte di una comunità, come ha fatto la maggior parte dei medici e degli infermieri nei giorni più bui della pandemia, i ricercatori, gli stati e le case farmaceutiche nell’approntare in tempi brevi i vaccini, la maggior parte dei cittadini rimanendo chiusa nelle proprie case e vaccinandosi non appena che i vaccini sono stati messi a disposizione.

Altri problemi rimangono aperti, e forse sono quelli veramente importanti nella lotta alla pandemia e a cui dovremmo dare la priorità, soprattutto quello di come far arrivare i vaccini in quelle zone del pianeta che per caratteristiche o per la situazione di povertà al momento sono escluse. Non è un problema di carattere umanitario (e già la dimensione umanitaria in sé ha una sua enorme importanza), ma se non riusciremo a fare ciò probabilmente perderemo anche la sfida che il covid ci ha lanciato.

massimocec settembre 2021