Francesco Bosso: paesaggi senza luogo

Il Caffè dei Maledetti Fotografi  Spazio LABottega, Pietrasanta

Interviste dal vivo di Enrico Ratto

Credi sia importante definire i luoghi in cui sono state realizzate le tue fotografie o cerchi di decontestualizzare?

Per quanto mi riguarda tendo assolutamente a decontestualizzare. Guardando i miei lavori credo si faccia fatica a riconoscere i luoghi. A parte Golden Light, una scattata in Islanda, gli altri lavori sono realizzati in tutto il mondo, soprattutto After Dark, il lavoro che sto preparando. In After Dark le immagini hanno in comune atmosfere e suggestioni che non sono legate a nessun luogo. Creo inoltre dittici di immagini scattate in luoghi molto diversi, dalla Hawaii alla Thailandia. Non è il luogo che ha importanza, ma la sua atmosfera e le similitidini grafiche.


Massimo Vitali Un’idea stra-vagante di fotografia

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Massimo Vitali. Marina di Massa, Torre Fiat

Dire che le foto di Vitali sono foto di paesaggio è piuttosto azzardato. Nelle foto di Vitali forse sono gli uomini a contare più del luogo, dell’ambiente. L’ambiente sembra fare da contorno. Ma gli uomini contano come massa e diventano parte del paesaggio, anzi diventano l’elemento principale del paesaggio. Scatta foto di spiagge, discoteche, piazze caratterizzate dalla presenza di consistenti gruppi di persone. Gli esseri umani sono piccoli, schiacciati dal contesto e nello stesso tempo definiti con estrema precisione. Ogni punto della foto è a fuoco anche se l’orizzonte occupa grandi spazi. Gli scatti di Vitali sono scatti nitidi ottenuti senza nessun ritocco perché non sono fotografie digitali.

“Uso delle macchine con lastre di grande formato. Con il digitale questa precisione è impossibile”.

“Il mio modo di fotografare è comunque distante… cerco di vedere la gente con più rispetto, senza il machismo fotografico che dà la “licenza di uccidere” ai fotografi”

“Il mio approccio fotografico è rigoroso. La fotografia è fatta di parole ma è imprescindibile dalla tecnica. Il dato tecnico prende quindi uno spazio importante nel mio lavoro. Questo perché ogni apparecchio nella sua specificità è capace di creare immagini differenti. La mia scelta di utilizzare un banco ottico è dovuta alla volontà di ottenere il maggior grado di dettaglio, in modo che l’osservatore delle fotografie possa essere proiettato in un’interpretazione libera dell’immagine. Lavorare con questo dispositivo impone una gestualità particolare ed rende più inclini ad una maniera riflessiva di produrre le immagini. Credo che questa relazione con il dispositivo influenzi la mia fotografia. Pur essendo passato da poco all’utilizzo del digitale non considero questa innovazione tecnologica come elemento capace di rivoluzionare il mio modo di lavorare. Quando io faccio una foto, per me è fatta in quel momento, non vedo la ragione di continuare a sprecare del materiale, sparando fotografie. In una giornata posso produrre circa dieci fotografie.”

Secondo quando dice Vitali, per esempio per fotografare i litorali Vitali studia il posto per mesi. Dopo questa fase, in un giorno decide di montare una impalcatura sulla quale la macchina fotografica è sospesa a più di cinque metri d’altezza e da lì scatta la sua fotografia.

“Prima di tutto ricerco dei luoghi che soddisfano i miei interessi: dei luoghi affollati e dove il paesaggio mi comunica qualcosa. La mia ricerca sul paesaggio in questi anni è cambiata drasticamente, i sistemi di visualizzazione satellitare su internet hanno sovvertito il mio modo di conoscere i luoghi. Soprattutto perché per me è importante avere una conoscenza imparziale prima di averli visitati. Non voglio essere influenzato dalle interpretazioni fotografiche di altri autori. In questo le viste proposte dai sistemi di visualizzazione su internet sono alquanto obiettive, proponendo un modo neutro di rappresentazione. Inoltre cerco di documentarmi ricercando dei video che riesco a leggere come più vicini a quello che mi attende nella realtà.
In questo modo costruisco un concetto di fotografia che è gia in mente prima che io la realizzi. Quando arrivo sulla spiaggia, ho già un’idea chiara di quello che voglio fare.
Il giorno della ripresa, salvo imprevisti, cerco di arrivare sulla spiaggia la mattina presto. La fase del posizionamento della piattaforma è abbastanza importante. Sono abbastanza testardo una volta che scelgo il posto, alle volte perdo delle belle foto per il puntiglio di non spostarmi mai, perché la considero una sconfitta. Una volta posizionato il dispositivo (piattaforma più macchina) in quel momento io faccio già parte del luogo, inoltre la piattaforma alta cinque metri contribuisce ad isolarmi dal contesto facendo in modo che le persone non mi considerino come un elemento di disturbo.”

In un altro intervento però Vitali afferma:

“Le mie immagini nascono come oggetti. … Le mie foto sono in-eventuali. Le mie foto non hanno eventi, o meglio hanno dei piccolissimi eventi che le caratterizzano.

…la mia ambizione, in realtà, è quella di dare una documentazione che duri nel tempo; è che, fra cinquanta o cento anni, la gente possa usare queste foto per vedere come eravamo oggi, più che se vedesse altri tipi di foto che vengono fatti oggi. Cerco, per così dire, di storicizzare la spiaggia, la discoteca… Faccio un esempio di due scatti a Marina di Pietrasanta. Uno del ‘96 e uno recente. Stesso posto, stesso giorno di inizio agosto. Io osservo le cose minime. I tatuaggi, gli asciugamani, i costumi, i gruppi, le famiglie. Beh, è un altro pianeta.

Il contenuto è poco interessante. E’ vero, potrebbe essere la parte migliore, ma in effetti io vedo che il contenuto si va sempre più assottigliando. La cosa importante è il modo in cui è fatta la foto. La foto segue una specie di rituale, prevede l’utilizzo di certe cose, come questo cavalletto su una piattaforma a cinque metri e mezzo, per avere sempre la visione dall’alto. C’è poi la messa in opera del cavalletto, la scelta di un certo tipo di macchina. A monte della fotografia c’è già tutto un progetto, come anche a valle: c’è il progetto, che prende le immagini e le fa diventare oggetto. A monte della fotografia c’è un certo tipo d’immagine fotografica, una certa posizione, la ricerca di un certo tipo di luogo, per cui alla fine la fotografia – l’immagine in sé stessa – ha un’importanza limitatissima. Anche perché, secondo me, nella fotografia contemporanea – che è stata investita dall’arte contemporanea – ha sempre meno importanza lo scatto, cioè come e quando avviene, mentre sono invece importanti tutte le cose a monte e a valle. …

La fotografia non ha in sé più niente da dire?

No. E’ perché la fotografia fa parte dell’arte contemporanea. Non può più stare a guardare la carta baritata in b/n. Ma non solo: la fotografia, secondo me, meno dura e meglio è… alla faccia del collezionismo. Va venduta, poi si deve rovinare!

…Quei poveracci del Rinascimento hanno fatto delle robe che sono ancora lì, si son bruciati il mercato, e non solo: l’hanno bruciato per generazioni a venire. La fotografia deve essere una cosa…

Effimera, sì; che si autoconsuma. I collezionisti ti chiedono: – Ma dura? E quanto dura? – (perché loro vogliono che duri 500 anni). Ma chi se ne frega! Non lo so, e non m’interessa, perché finché ci sono io, te la rifaccio, poi…”

Ho provato a mettere insieme le idee di Vitali sulla fotografia ma devo dire di non esserci riuscito. Non riesco a conciliare la sua idea di foto documento con quella di foto oggetto. Ciò che considero stravagante è l’idea di fotografia come oggetto che è indifferente rispetto al suo contenuto.

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Fotografia e filosofia

Contrariamente a quanto molti studiosi e critici hanno affermato, abbarbicandosi ancora a una certa concezione hegeliana dell’arte (ossia al fatto che Hegel accennasse al tendere dell’arte del nostro – in realtà del “suo” – tempo verso la filosofia), ritengo che proprio l’opposto di quanto Hegel postulava stia verificandosi: ossia dopo un apparente tendere verso la filosofia di certe forme d’arte concettuale, di musica aleatoria, dodecafonica (forme artistiche in cui l’elemento concettuale, iperrazionale cercava di avere la meglio) oggi si assiste invece a una tendenza opposta: a una defilosofizzazione dell’arte, a una desemantizzazione della stessa e quindi a un recupero di quei valori magici, mitici, persino terapeutici […] che sono stati ignorati per troppo tempo mentre meritano di riprendere il loro giusto ruolo.

Gillo Dorfles, L’intervallo perduto, Milano, Skira 2006, p.170

Ma di fronte a questa concezione del rapporto fotografia – filosofia proposto da Luigi Ghirri che pone al centro della sua ricerca “il guardare”, ossia la capacità al contempo razionale ed emotiva di decifrare i dati raccolti attraverso la percezione, trasformandoli in pensiero visivo.

Una risposta forse è rintracciabile in Ghirri, L’opera aperta, 1984:

“La fotografia penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi. Come ho detto prima, una grande avventura del mondo del pensiero e dello sguardo, un grande giocattolo magico che riesce a coniugare miracolosamente la nostra adulta consapevolezza ed il fiabesco mondo dell’infanzia… Borges racconta di un pittore che volendo dipingere il mondo, comincia a fare quadri con laghi, monti, barche, animali, volti, oggetti. Alla fine della vita, mettendo insieme tutti questi quadri e disegni si accorge che questo immenso mosaico costituiva il suo volto. L’idea di partenza del mio progetto-opera fotografica può paragonarsi a questo racconto. L’intenzione cioè di trovare una cifra, una struttura per ogni singola immagine, ma che nell’insieme ne determini un’altra. Un sottile filo che leghi autobiografia ed esterno.”


Perché tanti fotografi?

Nell’epoca attuale, dominata dalla tecnostruttura, il cui scopo è quello di creare continuamente nuovi bisogni, lo sviluppo dell’industria fotografica è, fra tutte le industrie, uno dei più rapidi. L’immagine risponde al bisogno sempre più urgente dell’uomo di dare espressione alla propria individualità. Oggi, nonostante i continui miglioramenti della vita materiale, l’uomo si sente sempre meno implicato nel gioco degli eventi e relegato a una parte sempre più passiva. Fare fotografie gli sembra un’esteriorizzazione dei propri sentimenti, una sorta di creazione. Di qui il numero crescente di fotografi dilettanti che si calcola oggi a centinaia di milioni e che tende vieppiù ad aumentare.

Gisèle Freund, Fotografia e società, Torino, Einaudi 2007, p.5


Vero e falso in fotografia

Realtà e finzione: il rapporto sempre più sottile che intercorre tra vero e falso è divenuto una costante nella percezione contemporanea del mondo, specie in fotografia, complice l’ambiguità che da sempre caratterizza questo linguaggio.

Da “Generazione critica”

Il Caffè dei Maledetti Fotografi  

Spazio LABottega, Pietrasanta

Interviste dal vivo di Enrico Ratto

John G. Morris: la verità viene prima della bellezza?

Pensa che oggi ci sia una differenza tra fotografia e immagine?

Io uso indifferentemente i termini fotografia e immagine. Se intende dire che l’immagine è una fotografia alterata, o ritoccata, in realtà semplicemente non credo nell’utilizzo o nell’efficacia di Photoshop nel fotogiornalismo.

Il fotogiornalismo dev’essere descrizione pura della realtà? 

Penso che il fotogiornalismo debba solo raccontare la Storia. Per esempio le 11 fotografie del D-Day di Robert Capa, le uniche che quel giorno si sono salvate e che ho curato nella redazione londinese di LIFE,  pur rovinate, quasi per niente nitide, non le considero astratte. Raccontano perfettamente la Storia.

Una fotografia è bella o è vera?

Quando guardo una foto, voglio solo sapere che cosa la foto vuole dirmi, il suo messaggio. La verità viene prima della bellezza.

Ferdinado Scianna: la verità viene prima della bellezza?

Che rapporto c’è tra bellezza e verità in una fotografia? Lei direbbe mai di una donna se è bella o vera? O di un film. O della Guernica di Picasso: è bella o vera? Che cosa c’è di più inutile di una fotografia bella. E dire che è vera, è un abuso. La foto è credibile, funzionale, tenta una possibile verità fotografica, parziale, soggettiva. La fotografia è traccia e forma. Se è bella senza raccontare, non serve a niente. E d’altra parte non può servire nemmeno se racconta qualcosa senza una sua dimensione formale.

massimocec


La monotonia della fotografia

anche se  il continuo mutamento della superficie della vita garantisce che la fotografia non potrà ripetersi finché che la pratica avrà coraggio, non è forse vero che, data la natura dell’apparecchio, essa non può che produrre uno stile invariabile – la cosidetta “fotografia diretta” – che alla fine risulterà monotono?

…Quanto ai limiti della fotografia e alla questione dell’invariabilità del suo stile, credo tuttavia che vi sia del vero. A giudicare da un secolo e mezzo di esperienza si può dire che prevale un approccio caratterizzato dalla visione diretta, che ogni tanto viene a noia anche a me. La fotografia è un mezzo freddo, può essere espressivo, ma relativamente meno di altri, e a volte preferisco il calore di un segno a matita o di una pennellata. E’ però evidente che all’interno di questo stile immutabile sono possibili variazioni importanti: cose nuove che si verificano nel modo in cui i fotografi presentano antiche verità. L’uso di una inquadratura spinta, per esempio, è una naturale conseguenza dello sviluppo della fotografia, peraltro non trascurato dai pittori. Lo stesso vale per il diverso uso del colore e quello sempre più raffinato del flash. In concreto, ogni bravo fotografo cambia anche solo di poco la tecnica di approccio.

Rimane comunque essenziale il fatto che, in arte, lo stile non è mai importante in quanto tale. Per se stesso non può nemmeno essere capito, il che spiega l’equivoco pirandelliano sul significato di certa pittura contemporanea essenzialmente decorativa. Ma se i percorsi stilistici della fotografia sono limitati, almeno per certi versi e comunque rispetto alla pittura, le sue opportunità di essere nuova sono ampliate sorprendentemente dai modi in cui una particolare impostazione può combinarsi con la grande varietà dei soggetti potenzialmente accessibili all’apparecchio; una varietà molto più grande che in pittura.

Robert Adams, La bellezza in fotografia, Torino, Bollati Boringhieri 1995, pagg.  49 e 50

 

Se Robert Adams ha ragione, la fotografia gioca su tre variabili per non cadere nella monotonia: il soggetto, il come della raffigurazione del soggetto (la grammatica e la sintassi del linguaggio fotografico) e la tecnologia.

massimocec


Una fotografia di Massimo Ceccanti

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Caro Massimo,
questa tua fotografia mi fa venire un po’ di nostalgia. Ero ragazzo e salivo su un ciliegio. Era buio e rubavo le ciliegie. Ero con i miei amici e le mie amiche molinesi vicino all’Ozzeri e forse c’eri anche tu. So che la nostalgia del tempo perduto è un sentimento da cui dobbiamo guardarci, ma quel vecchio albero di ciliegio con la chioma fiorita della primavera mi fa provare un dolce dolore di qualcosa che ho perduto. Un albero grande, vecchio e malato rimette le foglioline verdi e sbocciano i fiori candidi davanti a un muro grigio scrostato su cui si intravede un simbolo antico e sbiadito. Una bellezza quasi sfacciata che contrasta con il muro crepato e lo sguardo ferito da un luogo abbandonato. Mi fa tornare a vent’anni dopo averne vissuti tanti. È qualcosa che i portoghesi indicano con saudade e Tabucchi chiama nostalgia del futuro. E questo è un paradosso, perché del futuro si è curiosi e non nostalgici.

Per esempio, vorrei dirti che si può avere nostalgia del bel momento che abbiamo perso mentre scattavi la fotografia, eravamo insieme a Nicosia ti ricordi? Era una dolce primavera di qualche anno fa. Ecco però che ci prende un po’ di nostalgia nel momento in cui guardiamo la fotografia, qui ed ora, con quel ramo fiorito che si affaccia sull’inferriata arrugginita della finestra. Allora si vedono delle sfumature di luce rosate sul muro che prima appariva soltanto grigio. A questo punto pensiamo che è stata scattata al tramonto, il momento privilegiato dei nostalgici. E quando togliamo lo sguardo dalla fotografia e torniamo alle nostre faccende quotidiane ci può tornare in mente il momento in cui ci siamo fermati a guardare una fotografia di un albero fiorito che contrasta con un panorama desolante. E avere nostalgia del momento che stiamo vivendo. Stiamo provando di persona una seppur lieve e passeggera nostalgia del futuro.

Odellac


Senso di realtà e senso del possibile

_MG_6595Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità.  Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è” (da L’uomo senza qualità, trad. A. Rho, Torino, Einaudi, 1972)

È innegabile che per varcare una porta aperta senza subire danni è necessario tener presente che gli stipiti sono duri, e questo è il senso di realtà, senso che non può essere accantonato altrimenti le cose prendono il sopravvento e ci possono distruggere. Ma il senso di realtà non è sufficiente per vivere pienamente la propria esistenza perché le cose prendono il sopravvento anche se consideriamo gli stipiti come unico modo di manifestarsi di quella porta aperta. La porta è anche vuoto, mera possibilità di andare oltre. E ciò che troviamo oltre gli stipiti altro non è che una nuova manifestazione della stessa realtà. Il senso del possibile non è legato alla mera possibilità di evadere nella fantasia e nel sogno, ma è la capacità di vedere la realtà come un insieme di aspetti che cambiano, che si rivelano continuamente nuovi perché stanno oltre quella porta aperta, anche quando apparentemente rimangono gli stessi.

La realtà è sempre qualcosa di nuovo. Il tabaccaio Auggie nel film Smoke di Wayne Wang fotografa tutti i giorni alla stessa ora lo stesso punto di Brooklyn all’angolo tra la Settima Avenue e la Terza Strada. E quando il suo amico scrittore gli chiede perché tutti i giorni fotografi lo stesso punto della città che rimane sempre uguale, il filosofo tabaccaio risponde che non è così perché tutti i giorni c’è qualcosa di nuovo che vale la pena di essere fotografato. La realtà non si ripete meccanicamente, il suo manifestarsi è qualcosa di inaspettato e la fotografia è uno strumento per esplorare le infinite possibilità di mostrarsi delle cose. La fotografia è uno strumento per esplorare il senso del possibile perché da un lato essa non può fare a meno della realtà per esistere, per materializzarsi in un’immagine, e dall’altro non può fare a meno di rappresentare questa realtà in una forma ambigua, in un elemento surreale perché ogni fotografia e sempre un’astrazione, una segmentazione, un ritaglio della realtà. Ogni fotografia è un frammento di realtà isolato dalla continuità spazio-temporale, un frammento collocato in una dimensione in cui le indicazioni di spazio di tempo diventano labili. Gli oggetti sono separati dal loro contesto più ampio e diventano apparenze momentanee trasformate in oggetti materiali, solidificati.

L’esplorazione del senso del possibile quindi non è fuga nella fantasia, nell’immaginazione onirica ma è esplorazione delle molteplici possibilità con cui la realtà può manifestarsi perché la realtà non è solo un dato ma è il prodotto di relazioni e di una costruzione in cui i soggetti che la abitano giocano un ruolo attivo. Ogni soggetto che vive nella realtà è immerso in essa, circondato da altri soggetti, dalle cose, dagli sguardi, dai contatti diretti e a distanza con il mondo, ma la sua è un’immersione attiva, che modifica le relazioni e quindi il manifestarsi delle cose.

La realtà è un insieme di relazioni che possono rivelarsi come nuove, inusuali, inaspettate e la fotografia può aiutare a scoprirle, a renderle percepibili, visibili. Accostamenti inusuali di oggetti che rimandano a rapporti di non abituali, a scambio di ruoli, a punti di vista insoliti, l’isolamento di oggetti dal loro contesto che li trasfigura, mutando la loro identità non sono bizzarre invenzioni di avanguardie artistiche ma modalità di osservazione lente, riflessive, pensate della realtà, modalità che consentano alla mente di superare gli stereotipi visivi che ci tengono lontani dallo sbattere contro lo stipite ma non ci fanno andare oltre la porta aperta che sta davanti a noi.

Massimo Ceccanti


Antonio Tabucchi sulle Piagge

_MG_6588 (2)Non lasciatevi sfuggire “Donne, Cavalieri, Incanti e Follia. Viaggio attraverso le immagini dell’Orlando furioso”, la mostra sulle principali raffigurazioni dell’Orlando furioso. È stata inaugurata sabato 16 dicembre e resterà aperta fino al 15 febbraio 2013 al Centro Espositivo SMS. San Michele degli Scalzi si trova lungo il Viale delle Piagge a Pisa, nel quartiere occupato un tempo dalla Richard Ginori.

L’ingresso è gratuito ed eccoci di fronte a un grande murale di Ozmo, alias Gionata Gesi, giovane street artist pisano di fama internazionale. Ozmo ha mosso i suoi primi pennelli negli anni Novanta al Liceo Scientifico “Buonarroti” di Pisa con una serie di murales ora cancellati e ha creato opere monumentali in centri sociali e spazi alternativi tra cui il Leoncavallo di Milano.

Quando sarete lì davanti a questa opera muraria di Ozmo vi colpirà il volto di qualcuno. Il qualcuno è Antonio Tabucchi, un moschettiere senza spada, leggero e severo. Volto beffardo e baffuto, occhialini alla Pessoa, sguardo un po’ di traverso che rimanda alla Gioconda. Indossa una semplice camicia bianca. È bello vedere un uomo molto bello con una camicia bianca sbottonata al collo che ti accoglie in questo centro culturale, in silenzio e con un sorrisetto ironico, forse un po’ feroce o forse una smorfia, una piega della bocca per la sorpresa di trovarsi lì.

Odellac dicembre 2012


Lamp

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Quando ho visto questa foto sono rimasto stupito.

Lamp è l’inconscio visivo che emerge dai ricordi nascosti della mente, dall’immagine introiettata di un dipinto?

Lamp è la foto di una ragazzina che oramai si avvicina a non esserlo più che sta esplorando i confini della sua immaginazione?

Lamp è la foto di una abitudine al guardare e al vedere?

Lamp è la foto corale di un rapporto tra genitori e figlia, difficile, ma che mostra il tessuto di cui è fatto?

Lamp è il prodotto di un amore, amore per l’arte, amore per i figli?

Lamp è il prodotto della creatività personale di quella ragazza che in poco tempo è divantata adulta quasi senza che me ne rendessi conto?

Qualunque cosa sia, grazie Laura.

 

Massimocec gennaio 2013