Un viaggio negli anni ‘60
Appunti per una recensione cooperativa e una presentazione multimediale
Alla base di questo viaggio c’è il volume C’era una volta in Italia di Enrico Deaglio, con Ivan Carozzi, sugli anni Sessanta (Feltrinelli, novembre 2023).
È un libro ricco di illustrazioni e con una gran massa di documenti, un’opera in grande, dalla Dolce vita di Fellini del 1960 alle bombe del dicembre 1969, che attrarrà chi ha vissuto quel periodo e, leggendolo, potrà accorgersi di quante cose gli accadevano intorno e che allora gli erano sfuggite. La nostra vita è un connubio di personale e pubblico, facciamo le nostre cose, viviamo nel nostro tempo come un uccello che ti viene incontro, sembra quasi che ti venga addosso, poi ti schiva, prende un’altra direzione e vola via. Così spesso non riusciamo a capire o non riusciamo a capire bene quello che ci succede intorno, anche se ci sentiamo protagonisti degli anni che stiamo vivendo.
Deaglio proseguirà l’opera nel novembre 2024 con gli anni Settanta, l’anno seguente gli Ottanta e poi i Novanta. L’impegno è notevole, tirar fuori, decennio dopo decennio, il periodo che dagli anni Sessanta ci ha portato veloci fino ai nostri anni venti.
È un libro che ha una fotografia di copertina molto bella: quattro giovani a bordo di una vecchia vespa. Dove sia stata scattata l’autore questo non lo sa, immagina nel meridione e dice che gli stanno “simpatici un po’ perché stanno andando al mare, un po’ perché sono poveri, un po’ perché sono terroni”. La casa editrice, in una nota a inizio volume, dice che non è riuscita a “individuare eventuali aventi diritto”, anche se ci ha provato per questa come per altre foto, “pur non essendone obbligata” e si impegna a “rimanere a disposizione per ogni evenienza”. L’evenienza potrebbe essere una semplice presentazione del libro illustrato nel nostro Comune, un dialogo con l’autore, a cui ci piacerebbe fare i complimenti di persona e al massimo un brindisi ai “favolosi anni Sessanta”. E poi, prima che se ne vada, vorremmo dirgli: Eh sì, caro Deaglio, il suo libro è formidabile per la ricchezza di contenuti e la varietà di generi, anche la fotografia della copertina è formidabile e ha qualche cosa a che vedere con qualcuno di noi. Ma questo è un dettaglio di poca importanza, e poi non bisogna per forza sapere tutto per filo e per segno. Quei quattro “ragazzacci” in vespa ci fanno venire il dubbio che la realtà sia sempre più complicata di come ce la immaginiamo.
Il volume ha una struttura che si ripete per ogni anno: una fotografia che si distende su una pagina e mezzo e nell’altra metà l’elenco dei titoli degli argomenti accaduti in quei dodici mesi, segue una scheda chiamata “Annali” in cui compaiono le stesse voci (“Chi è al governo”; chi si aggiudica i più importanti premi, il giro d’Italia, Sanremo e lo Strega; qual è la canzone dell’estate, le leggi approvate; chi nasce e chi muore; fino a “Vorrei essere come lui” e “Vorrei essere come lei”), poi incontriamo una pagina color salmone con in alto un’altra fotografia e sotto un breve testo su un fatto che l’autore ha voluto mettere in evidenza, scorrono pagine zeppe di documenti d’epoca con rari commenti e ricordi personali. Ogni anno si chiude con una rubrica che si intitola “Fra l’altro…”, con notizie di vario genere: dall’inizio del programma tv Non è mai troppo tardi del “maestro” Manzi nel 1960, “corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”, all’allunaggio dell’Apollo 12, con Neil Amstrong e Buzz Aldrin, del novembre 1969.
A partire dalla fotografia, che ci ha piacevolmente sorpresi, è nata una curiosità nei confronti del volume che, pagina dopo pagina, ha letteralmente conquistato il nostro interesse, l’abbiamo divorato perfino nelle parti in cui ci sono solo elenchi di nomi dei vari protagonisti. Ci è venuto in mente di provare a invitare qui da noi Ivan Carozzi, coautore massese, insieme a Enrico Deaglio, torinese che vive a San Francisco, California, “con nostalgie di casa”, fare due chiacchiere insieme sugli anni Sessanta e sorprenderlo con una presentazione un po’ speciale, con solo un pizzico di nostalgia dei “favolosi anni Sessanta”.
A partire da questo quadro è nata l’idea di rileggere il volume, insieme ad un gruppo di collaboratori, ognuno dei quali sceglierà una tematica relativa ad una anno, con una scelta inevitabilmente arbitraria e una ricostruzione parziale che potrà sembrare anche tendenziosa dei fatti e dei documenti citati, provando così a scrivere una recensione cooperativa articolata in una serie di dieci testi, con la speranza che il preannunciato soggettivismo non susciti troppe critiche da parte di chi c’era e dei lettori o delle lettrici navigati/e. Ma soprattutto che, da una lettura degli articoli, a tutti/e venga la voglia di sfogliare il libro.
odellac
COLLABORATORI
Ovidio Della Croce (1960), Massimo Ceccanti (1961), Susanna Vierucci (1962), Pierantonio Pardi (1963), Anna Maria Calloni (1964), Cristina Marinari (1965), Caterina Carpita (1966), Alessandro Salerni, Antonietta Timpano (1967), Fabio Bentivoglio (1968), Fedora Durante (1969).
| C’era una volta in Italia | Gli anni Sessanta |
| 1960 | 1961 | 1962 | 1963 | 1964 | 1965 | 1966 | 1967 | 1968 | 1969 |
Comment
I miei anni ’60
Gli anni ’60 così come sono presentati nel libro di Deaglio e Carozzi e come sono presenti nella mia memoria si rivelano caratterizzati da una sorta di rispecchiamento, nel senso che quello che è presente nella mia memoria si rispecchia in gran parte di quello che viene narrato nel libro. Il libro ha svolto nel mio caso la funzione da un lato di stimolo del ricordo dall’altro quello di specchio in cui riflettersi. È una strana e piacevole sensazione quella di essere stato in qualche modo un attore nella vicenda italiana, certo non un protagonista ma una comparsa. Comunque, un soggetto presente.
Essendo nato nei primi anni ’50, gli anni ’60 coincidono per me con la tarda infanzia e l’adolescenza. Ho quindi dei ricordi abbastanza chiari a partire dai primi anni del decennio, ricordi che si avvinghiano in modo stretto alla narrazione della grande trasformazione che negli anni 60 ha subito il nostro Paese, trasformazione certamente non percepita da me come esperienza diretta nel momento in cui è stata vissuta giorno per giorno, ma ora ben chiara ed esplicita di fronte ad uno sguardo a distanza e sulla base di una memoria che si appoggia alla storia narrata in numerosi testi di studiosi e divulgatori, compreso il libro Deaglio.
La mia famiglia negli anni ’50 era, come tante altre famiglie italiane, una famiglia povera, mio padre era operaio, mia madre una casalinga. Vivevamo in un paesino del comune di San Giuliano, Mezzana, un paesino di campagna collocato sotto gli alti argini del fiume Arno. Era più che un paesino una comunità dove tutti si conoscevano. Mio padre ogni giorno andava a lavorare a Pisa con la bicicletta e occupava il suo tempo libero coltivando l’orto e allevando animali per completare con i prodotti di tale lavoro le risorse provenienti dal suo salario. La domenica mattina era impegnata nella diffusione dell’Unità nelle case dei vari “compagni” in bicicletta con me sulla canna nelle giornate in cui la pioggia o il freddo lo permettevano. Io durante la settimana invece andavo all’asilo dalle suore e il parroco era un amico di mio padre e di mia madre, ma soprattutto di mia nonna che spesso mi portava in chiesa la sera quando andava a recitare il rosario. Era veramente un modo strano quello della campagna degli anni del dopoguerra dove comunisti anticlericali e mangiapreti come mio padre e i preti potevano andare d’accordo senza dover rinunciare alle proprie idee. La frequentazione era talmente assidua che io ricordo ancora i nomi delle suore e del prete, suor Mafalda, suora Dilla, don Dino, nomi un po’ strani per me perché ho capito tardi che don Dino non era Dondino e suora Dilla, il nome di un donnone vestito di nero con un marcato accento veneto, non sono mai riuscito a interpretarlo.
A Pisa si andava talvolta con la carrozza perché il pullman arrivò solo verso la fine degli anni ’50. Vivevamo in una casa senza riscaldamento, con il bagno esterno, una casa collocata proprio sotto l’argine del fiume l’Arno che la sovrastava di alcuni metri, con la continua paura nei periodi di piena che l’acqua trascinasse e la sommergesse. Mia madre cucinava utilizzando una stufa a legna e d’inverno per riscaldare i letti usavamo un “caldano” agganciato ad uno strano attrezzo a forma ovale che si metteva sotto le lenzuola. Facevamo il bagno in una tinozza credo d’alluminio o di acciaio zincato con l’acqua riscaldata sulla stufa. D’estate ad una certa ora del pomeriggio passava il gelataio con il suo carretto a pedali e tutti bambini di Mezzana correvano a comprare il gelato. Sempre d’estate spesso andavamo a cenare con i miei zii sulle sabbie ghiaiose dell’Arno traversandolo a guado. Si potevano vedere i pesci e le rane. La televisione andavamo a vederla ogni tanto nella Casa del popolo, in una sala affollatissima e piena di fumo. Spesso guardavo la televisione sulle spalle di mio padre perché non c’erano posti a sedere.
Ad un certo punto però cambiarono molte cose. Alla fine degli anni ’50, credo nel 59, traslocammo e ci trasferimmo in città, a Pisa, un trasloco fatto su un carro trainato da un cavallo, carro e cavallo che ci portavano a casa la legna per l’inverno. La casa a Pisa non era molto diversa da quella che avevamo in campagna, non c’era il riscaldamento e il bagno era esterno. Anche nella casa di Pisa c’era un piccolo orto dove mio padre allevava animali e coltivava qualche ortaggio. Ma nel giro di pochi anni arrivarono il frigorifero, la stufa a gas, il giradischi, perché mio padre era amante della lirica poteva così ascoltare le sue opere, il televisore, e infine la lavatrice, la cucina elettrica, la stufa a cherosene, una nuova cucina in formica con le sedie in metallo nero in sostituzione di un bel tavolo in legno massello con il ripiano in marmo bianco e le sedie impagliate e di un armadio da cucina bianco in legno con al centro un ripiano aperto circondato da uno specchio costituito da tanti piccoli specchietti rettangolari e da una vetrinetta, addirittura arrivo anche un divano. Non è mai arrivata l’automobile perché mio padre si è sempre rifiutato di prendere la patente. La bicicletta, il filobus, il treno sono stati i suoi mezzi di locomozione, tranne che per un certo periodo in cui ha utilizzato un Guzzi 50 rosso con pedali e mia madre un motorino Torpedo grigio sempre con pedali. Per tutti gli anni della mia prima adolescenza la bicicletta è stato anche il mio mezzo di locomozione. La cambiavo spesso, dalla Bianchi alla Bottecchia. Ne ho avuta una anche con il manubrio da corsa perché in fondo mio padre, da amante del ciclismo, si riconosceva nella mia passione per le biciclette. Ciclismo e calcio erano i due sport che seguiva. Mi ricordo che spesso mi portava all’Arena Garibaldi, anche sotto la pioggia, con il totale disaccordo di mia madre, a vedere giocare il Pisa non so in quale serie. La mia passione per il calcio si è comunque conclusa presto, con la stagione 1968-1969, dopo che il Pisa disputato il suo primo campionato di Serie A, retrocesse. Del resto non ero molto portato per il calcio, anche se nell’oratorio Lanteri in cui passavamo molti pomeriggi giocavo con il futuro campione del mondo Marco Tardelli. Visti i risultati decisi di abbandonare il calcio e darmi alla pallacanestro.
Grazie alla televisione in casa e al giradischi ho assistito a vivaci battibecchi tra mia cugina, una bella e vivace ragazza vicina ai venti anni che spesso passava dei periodi in casa nostra perché mio zio carpentiere era in giro per l’Italia a costruire dighe e ponti e talvolta mia zia lo seguiva, e i miei genitori che, pur essendo molto attaccati a lei, la criticavano in tutto, da come si vestiva con i suoi pantaloni e suoi maglioni attillati con il collo alto, a come si pettinava, alle sue preferenze in campo musicale, loro legati alla musica melodica di Claudio Villa, di Luciano Tajoli, di Nilla Pizzi, lei innamorata di quelli che allora venivano chiamati gli urlatori, da Mina, a Rita pavone, Gianni Morandi, Celentano, Bobby Solo. In cuore mio ero dalla parte di mia cugina anche se mi dispiaceva contraddire i miei genitori.
Ricordo l’entusiasmo con cui vennero accolti dai miei genitori i trionfi dell’Unione Sovietica nello spazio e in particolare il lancio che portò Jurij Gagarin “tra le stelle”. Con molta più indifferenza ho vissuto lo sbarco sulla Luna nel 1969. Ricordo di essere stato nel momento in cui la televisione trasmetteva le immagini dell’allunaggio con il mio lambrettino 50 in giro per le strade di una Tirrenia deserta e di essermi scontrato con uno dei pochi veicoli circolanti, una Vespa 50 condotta da un mio coetaneo.
Ricordo anche l’emozione con cui venne accolto a Pisa l’eccidio di Kindu in Congo, perché la 46a aerobrigata era di stanza a Pisa e il comandante Parmeggiani era conosciuto in città. In modo ancor più vivo ricordo la tragedia del Vajont. I miei genitori non riuscivano a staccarsi dal televisore ogni volta che trasmettevano notizie sul disastro di Longarone e degli altri villaggi coinvolti. Ricordo poco invece della morte di Togliatti o del Papa Giovanni XXIII. Vissi con maggiore emozione l’assassinio del presidente Kennedy e la morte di Totò nel 1967 appresa al ritorno da una gita scolastica sui giornali della sera mentre a piedi stavo tornando a casa.
Vivissimo invece è il ricordo dell’alluvione di Firenze perché anche Pisa fu coinvolta. In quel periodo abitavamo nel quartiere di San Michele degli Scalzi, un quartiere periferico anch’esso collocato sotto gli argini dell’Arno, un quartiere che era già stato sommerso nel 1949 quando una voragine si era aperta nell’argine di fronte alla chiesa e l’acqua, dopo aver abbattuto gran parte dell’antico edificio religioso, aveva allagato il rione costringendo gli abitanti a salire sui tetti o ad abbandonare le case fuggendo dalle finestre su barche. Passammo il pomeriggio a controllare il livello dell’Arno sul viale delle Piagge. Verso sera, visto che il fiume continuava a salire, mio padre decise di cercare di mettere in sicurezza, per quanto possibile, mobili ed elettrodomestici al piano terra collocandoli sulle sedie o sui tavoli e di salire al primo piano nelle camere. Affacciati alle finestre guardavamo l’acqua salire nella strada. Arrivò per fortuna soltanto alla nostra soglia di casa perché eravamo nel punto più alto della via in cui abitavamo, una specie di dosso, mentre le case vicine avevano il piano terra già allagato quando l’acqua cominciò a defluire. Ricordo la sensazione di sollievo quando vedemmo l’acqua iniziare a decrescere e uscimmo di casa con stivali e guanti per dare una mano a chi invece era stato sommerso.
Per quanto riguarda il percorso scolastico, finite le elementari ho frequentato la prima media unica appena introdotta dal governo di centrosinistra. Terminata a sua volta la scuola media, sulla spinta di genitori che credevano nel valore dell’istruzione e nella funzione della scuola come strumento aprire le porte a forme di ascesa sociale per le classi meno abbienti, ho fatto parte di quel vasto esercito di giovani studenti che si sono iscritti al liceo mettendo in crisi le inadeguate strutture scolastiche che hanno dovuto ricorrere ad aule improvvisate per accoglierci tutti, ricavate in edifici non certo nati per ospitare scuole, con insegnanti talvolta neppure laureati o appena laureati ma di grande valore come Gianmario Cazzaniga, Remo Bodei, Vittorio Campione. Ho frequentato il liceo negli anni in cui ha preso avvio la contestazione in una città epicentro delle lotte studentesche, Pisa, e questo a lasciato un segno profondo sia nella mia preparazione sia nella mia formazione politica, pur non avendo mai condiviso le posizioni dei gruppi più estremisti e neppure quelle dei gruppi semplicemente extraparlamentari. Vivevo con difficoltà la duplice influenza da un lato di mio padre, comunista ortodosso e tendenzialmente stalinista, come molti suoi coetanei, e le aperture libertarie ‘provenienti dalle frequentazioni scolastiche.
Gli anni ’60 si concludono nella mia memoria prima con la drammatica vicenda di mio padre licenziato dalla Saint Gobain, con le lotte portate avanti dai lavoratori pisani per evitare i licenziamenti, lotte che hanno comportato anche scontri con la polizia in cui mio padre si è preso certa dose di manganellate e che si sono concluse con la vittoria degli operai e il ritiro dei licenziamenti. Poi con il coinvolgimento involontario in scontri con la polizia e manifestanti per le strade della città, lancio di rudimentali ordigni forse impropriamente chiamati molotov, fumogeni, fuga nelle chiese per cercare di evitare di rimanere incastrati negli scontri. Ancora tra i ricordi i giorni successivi al capodanno alla Bussola nel 1968 e il ferimento del mio concittadino e omonimo Ceccanti, con persone che conoscevo coinvolte negli scontri e il ricordo di un’altra tragedia, il terremoto del Belice. Infine la strage della Banca dell’Agricoltura a Milano vissuta attraverso la televisione, un evento che insieme alla Grecia passata sotto il dominio dei colonnelli nel 1967 e all’invasione della Cecoslovacchia 1968, hanno segnato la fine di una stagione dell’Italia e anche di una stagione personale, quella della prima fase dell’adolescenza in cui si poteva essere ancora solo spettatori di fronte agli eventi che stavano accadendo intorno a noi.
Nel libro di Deaglio e Carozzi, gli anni ’60 vengono descritti come gli anni delle profonde trasformazioni economiche e sociali dell’Italia, un paese che passa da un’economia contadina a un’economia industriale, la popolazione che si trasferisce dalla campagna alla città e dal Sud al Nord, riempiendo le città del Nord, in particolare Torino, di immigrati meridionali accolti con diffidenza se non con ostilità, condannati ad una vita poco dignitosa sia economicamente che socialmente, trasformazioni che daranno vita a motori sotterranei che esploderanno alla fine degli anni ’60. Ci sono descritte anche tutte le vicende e le tragedie che nella mia memoria sono rimaste impresse. Sono queste le immagini in cui vedo riflessi i miei ricordi e le mie immagini mentali che, in parte, erano stati riposti in cassetti chiusi ma non troppo ermeticamente.
massimocec