La dolce vita
Nell’Italia della “dolce vita” debutta la trasmissione radio Tutto il calcio minuto per minuto. Negli Stati Uniti viene messa in commercio la pillola anticoncezionale che, l’anno dopo, sbarca in Europa, ma non in Italia, dato che una legge del tempo fascista vietava ogni tentativo di “limitare la stirpe” (bisognerà aspettare il 1971). Viene aperto alle donne l’accesso ai pubblici concorsi e alle carriere pubbliche. Adriano Olivetti, l’industriale illuminato e utopico, famoso per le macchine da scrivere muore e per la creazione di una comunità attorno alla fabbrica, muore all’improvviso. Il “miracolo economico” manifesta una forza violenta: milioni di persone si spostano da sud verso Torino e Milano dove c’è richiesta di manodopera per le fabbriche, “una colata di cemento invade la penisola” senza regole e leggi per gestirlo. Col governo Tambroni (Dc con appoggio esterno del Msi e dei monarchici) il Movimento sociale convoca il congresso nazionale a Genova il 30 giugno, ma viene fermato dalla forte risposta antifascista dei ragazzi con “le magliette a strisce”, che vengono di moda. Nelle giornate del luglio ’60 Ferdinando Tambroni è cacciato a furor di popolo. A Licata era stato ucciso dalla polizia un manifestante, a Reggio Emilia cinque operai del Pci, altre quattro persone in Sicilia. La famosa canzone con i nomi e cognomi è “martiri di Reggio Emilia” del giovane architetto e cantautore Sergio Amodei, che all’epoca dei fatti faceva il militare. La canzone dell’estate è Il cielo in una stanza cantata da Mina. Viene inaugurato l’aeroporto di Punta Raisi, la scelta è imposta dalla Democrazia cristiana e dalle famiglie mafiose, intorno all’aeroporto crescerà la speculazione edilizia e l’abusivismo. La Capitale è quella che cambia di più: quasi completato l’aeroporto internazionale di Fiumicino e Roma si prepara a celebrare i Giochi della XVII Olimpiade, quelli dove Abebe Bikila trionfa nella maratona correndo scalzo. E intanto vengono rese obbligatorie le strisce pedonali per l’attraversamento della strada.
Al Box office La dolce vita sbanca e, confessiamolo, vorremmo essere come lui: “Marcello Mastroianni, gattone, nella tiepida giungla romana”.
Le sale cinematografiche sono piene in tutta Italia, clamore e polemiche a non finire per un film che fu uno choc per molti italiani: La dolce vita di Federico Fellini, con Anita Ekberg, già miss Svezia, nella fontana di Trevi e Marcello Mastroianni che le dice: “Sì, Sylvia, vengo anch’io. Ma sì, ha ragione lei, sto sbagliando tutto, stiamo sbagliando tutti”. Va nell’acqua dietro alla bionda e le fa la famosa dichiarazione: “Tu sei tutto, Sylvia! Ma lo sai che sei tutto, eh? You are everything… everything! Tu sei la prima donna del primo giorno della Creazione. Sei la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo, il diavolo, la terra, la casa… Ah ecco cosa sei: la casa!”
Fu il film, per esempio, che segnò una svolta nella vita del giovane Antonio Tabucchi perché, dopo aver visto, La dolce vita, prese “la grande decisione di partire” e se ne andò a Parigi “in cerca di novità, di scoperte”. Poco prima di prendere il treno per il ritorno ebbe il suo “primo incontro con Pessoa”. Comprò a caso “un libricino intitolato Tabaccheria di Álvaro de Campos, l’eteronimo di Pessoa, nella prima traduzione europea. Un segno del destino”. Tabucchi ha dedicato a Pessoa gran parte della sua attività di studioso e ne ha curato l’opera in italiano. Lo considera il film della sua vita: “Senza Fellini quell’incontro per me non ci sarebbe stato” (A. Tabucchi, Il film della mia vita, in Di tutto resta un poco, Letteratura e cinema, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 189).
L’uscita del film fu preceduta da una visione per un pubblico accreditato a Roma e Milano. È venerdì 5 febbraio, a Roma segue alla proiezione quello che oggi potremmo definire con l’espressione “silenzio assordante”. Al cinema Capitol sono presenti in sala Mastroianni, Anouk Aimée, Yvonne Furneaux, Anita Ekbert e lo stesso Fellini ormai famoso (nel 1954 aveva vinto l’Oscar con La strada) l’attesa è grande, ma ai titoli di coda succede il finimondo: “Vergogna, comunisti barboni…”, altri insulti e lo sputo contro il regista.
Tullio Kezich, critico cinematografico e amico di Fellini, resta la principale memoria di quell’evento: “Il film diventò una cosa di tutti. Deflagrò come una bomba nel febbraio del ’60 e il giorno dopo qualcuno si accorse che l’Italia non era più la stessa. Certo non l’aveva cambiata La dolce vita, ma ne era stato l’annuncio vistoso. Sbarcati dalla gran nave felliniana, a noi girava un po’ la testa” (E. Deaglio, C’era una volta in Italia, Gli anni Sessanta, Feltrinelli, Milano, 2023, p. 36).
I grandi incassi, il premio a Cannes e il successo mondiale del film fanno girare la testa al Vaticano, per primo. Forse per Maddalena, Anouk Aimée, simbolo dell’alta borghesia, che gira annoiata per via Veneto in Cadillac, e per eccitarsi va con Marcello in casa di una prostituta. O forse per Anita Ekberg vestita da cardinale con una tonaca troppo attillata. Oppure per Yvonne Forneaux, la “moglie italiana” possessiva e fissata nell’accudire Marcello, preparargli i ravioli con la ricotta, imboccarlo con uovo sodo e banana mentre lui è alla guida.
Si irritano con Fellini i notabili democristiani, “lo scandalo dei bigotti”, la prendono male e reagiscono “all’affronto” con interrogazioni parlamentari. “Come potevano gli uomini del potere politico, che volevano un’Italia bella, conciliante, risorta dai disastri della guerra accettare quell’immagine così terribilmente squallida che quel film ci restituiva? (A. Tabucchi, Il film della mia vita, cit., p. 188).
Quel film aprì una frattura, per il ritratto terribile che Fellini fece della società italiana. Qualche voce di apprezzamento ci fu. “Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti, apprezza il finale con la bambina pura, simbolo della grazia divina, che invita Marcello a venire da lei. Pasolini stupisce tutti perché definisce il film “un’opera cattolica”. Tabucchi è grato a Fellini: “Ecco, io, allora, guardando quel grande affresco sull’Italia anni Cinquanta e Sessanta, capisco il paese che mi circonda. Resto anche stupito, ma sono grato a Fellini: per me che non avevo capito niente, lui aveva già capito tutto. Lì c’erano tutti i vizi degli italiani, ma il senso vero di quel grande dipinto era la scoperta che l’Italia era un paese del Basso Impero. Ero un ragazzo di provincia che studiava a Pisa, e che credeva che l’Italia, dopo il disastro della guerra, stesse vivendo una specie di Risorgimento. Mi sbagliavo, quella era la decadenza, e La dolce vita mi aprì gli occhi. Come in un giudizio universale, lì non si salva nessuno” (A. Tabucchi, Il film della mia vita, cit., p. 186-187).
Non si salva l’alta borghesia, “avida di denaro facile”. Né la piccola borghesia, rappresentata dal padre di Marcello, che arriva a Roma dalla provincia e passa una disastrosa notte di follie in un locale notturno. Ma anche il “popolino”, che spera nelle apparizioni della Madonna ed è pronto a mettersi in posa davanti alla tv. E i mezzi di comunicazione di massa danno il peggio di sé quando spettacolarizzano il niente. Per non parlare degli intellettuali alla Marcello Rubini (Mastroianni), ha grandi aspirazioni, vuole diventare scrittore, ma lavora per un periodico scandalistico, gira per Roma sulla Triumph TR3 scoperta, con gli occhiali scuri Persol, e il suo romanzo rimane lì. E la tv rappresenta il peggio e spettacolarizza il niente.
“Italia orrenda degli inizi anni Sessanta, paese corrotto e decadente, terra in cui niente si salva né può essere salvato” (A. Tabucchi, Il film della mia vita, cit., p. 188). Il giovane Antoni Tabucchi ha visto il film allora, ma poi ammetterà che era “troppo immaturo per capirlo” e resta comunque “impressionato dall’Italia raccontata dal grande regista” (A. Tabucchi, Opere, a cura di Paolo Mauri, Tomo primo, Mondadori, Milano, 2018, p. LXIII).
Enrico Deaglio termina la sua rassegna sul film con la trascrizione di un brano di un dialogo notturno in piazza del Popolo tra Marcello Mastroianni e Anouk Aimée:
«Marcello: “Sa qual è il suo guaio, Maddalena? Di avere troppi soldi”».
Maddalena solleva lentamente gli enormi occhiali. Ha un livido sotto lo zigomo. Annoiata risponde: “E il tuo, di non averne abbastanza” (E. Deaglio, C’era una volta in Italia, Gli anni Sessanta, cit., p. 40).
Con la meraviglia di invenzioni musicali di Nino Rota e la genialità di Federico Fellini, che “profeticamente aveva già intuito dove saremmo andati a parare” (A. Tabucchi, Il film della mia vita, cit., p 187), “anno dopo anno, decennio dopo decennio, La dolce vita l’hanno vista tutti. E in tutto il mondo”. Sottolinea Deaglio nella presentazione al suo “libro illustrato”: “Il decennio che si apre con La dolce vita di Fellini terminerà con le bombe di Milano” (E. Deaglio, C’era una volta in Italia, Gli anni Sessanta, cit., p. 10).
odellac
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