LE TESI DELLA SAPIENZA
Scorrendo le pagine nel libro di Deaglio dedicate all’anno 1967, a pagina 388 mi è capitato sotto gli occhi un titolo che ha messo in moto la macchina interiore deputata ad elaborare ricordi, a richiamare immagini mentali del passato: Febbraio, Pisa. Gli studenti universitari si chiedono chi sono. Le tesi della Sapienza. Ancor più del titolo la mia memoria forse è stata stimolata però dalla lettura dell’elenco, riportato nel libro di Deaglio, degli schedati dalla polizia in seguito all’intervento per porre termine, su richiesta del Rettore, all’occupazione del palazzo della Sapienza durante la quale le Tesi della Sapienza furono elaborate, un palazzo in cui ho trascorso molte giornate alla ricerca di riviste quasi introvabili sul neopositivismo logico, Carnap, Wittgenstein, Musil e alla loro lettura nelle sale della Biblioteca Universitaria.
Nell’elenco ho trovato nomi di persone che ho conosciuto, che allora ho stimato e che ancora oggi continuo a considerare incontri fortunati, incontri che in qualche modo lasciano un segno nella vita, e tra loro qualcuno che ha avuto un ruolo importante per me. Il primo nome che mi cade sotto gli occhi e quello di Vittorio Campione, mio professore di storia e filosofia nell’ultimo anno del Liceo scientifico Ulisse Dini di Pisa, membro interno del nuovo esame di maturità introdotto dal ministro Sullo nel 1969, due prove scritte e due materie per il colloquio su quattro indicate dal Ministero, di cui una a scelta del candidato (non ricordo quale materia scelsi né quale materia mi fu assegnata, in quegli anni la scuola non era al centro dei miei interessi). Per una strana sorte del destino sono stato sempre uno dei primi a sperimentare le riforme della scuola, da quella della scuola media unica, al nuovo esame di maturità, alla liberalizzazione degli accessi all’Università e dei piani di studio.
Scorrendo il testo, vicino al nome di Vittorio Campione, compare quello di Umberto Carpi, professore di letteratura italiana all’Università di Pisa e inconsapevole compagno di molte passeggiate sul viale delle Piagge durante pomeriggi primaverili, diretti verso il bar Salvini per l’immancabile caffè postprandiale, quando nella stagione del compromesso storico, con voce tonante e udibile da chi si trovava a passeggiare vicino a lui, attaccava Berlinguer e le sue scelte politiche. Ancora nell’elenco compare il nome di Carla Melazzini, conosciuta solo indirettamente attraverso amici valtellinesi, sua terra di origine, luogo in cui ho iniziato la mia carriera di insegnante, amici che mi hanno raccontato di lei come giovane normalista che, ad un certo punto del suo percorso universitario, ha lasciato la Scuola Normale perché non era d’accordo sul modo di insegnare che caratterizzava il prestigioso istituto pisano, una scelta che l’ha portata a diventare maestra di strada a Napoli, insieme al marito Cesare Moreno, entrambi tra i fondatori di Lotta Continua. E poi ancora il nome di Rina Gagliardi, futura giornalista e anche lei, come Carpi, futura senatrice per il Partito di Rifondazione Comunista, allora anche lei normalista, facente parte del primo nucleo de Il Manifesto, insieme al filosofo pisano e ancora oggi piacevole interlocutore di tematiche filosofiche e pedagogiche, spesso legate al tentativo di fare filosofia con i bambini, Alfonso Maurizio Iacono, allora perfezionando alla Normale, già studente di filosofia, allievo di Aldo Gargani, professore con cui mi sono laureato, e di Nicola Badaloni, una delle personalità più note dell’Istituto pisano di filosofia, insieme al liberale Francesco Barone e al politicamente non classificabile ma dotato di un irresistibile fascino culturale Giorgio Colli. Ancora nell’elenco compare il nome di Aldo Menzione, fisico di fama che ha lavorato in grandi laboratori internazionali, ma per me soprattutto uno dei tre fratelli Menzione di origine massese, ma noti a Pisa, Ezio, noto avvocato e amico di uno dei miei più cari amici, Ovidio, anche lui pienamente coinvolto nelle vicende dei movimenti postsessantottini, e Andrea, professore di storia all’Università di Pisa, conosciuto in una serie di cene organizzate da un gruppo di amiche assai eterogeneo. Scorrendo ancora l’elenco si trova ancora il nome di Giorgio Pietrostefani, amico di Adriano Sofri, anche lui tra i fondatori di Lotta Continua, condannato insieme a Adriano Sofri e al massese Ovidio Bompressi come mandante dell’omicidio del commissario Calabresi, e quello di sua moglie, Fiorella Farinelli, normalista, poi sindacalista, segretaria nazionale della Cgil scuola, e quindi assessora nelle giunte romane del sindaco Rutelli, e anche lei, nella sua militanza studentesca pisana, tra i fondatori di Lotta Continua. Un altro nome che mi ha richiamato l’immagine di un volto conosciuto, un volto che in quel periodo mi aveva colpito per l’eleganza dei suoi tratti accompagnati da un’altrettanta eleganza della voce e dei modi di fare è quello di Marco Rosa-Clot, altro normalista, oggi fisico di portata internazionale. Ma oltre agli schedati, ho riconosciuto altri nomi di personaggi coinvolti nella vicenda della Tesi della Sapienza, quelli di Gianmario Cazzaniga, ex normalista, anche lui mio professore di storia e filosofia nel terzo anno di liceo, seguito nel quarto anno da un altro grande personaggio del mondo filosofico pisano, da un giovanissimo Remo Bodei, destinato a diventare uno dei più importanti filosofi italiani della seconda metà del ‘900, preceduto nel secondo anno del liceo, come insegnante di storia, da Fausto Barcella, giovane professore amico di Cazzaniga, autore di studi su Hegel e Marx, morto suicida, un insegnante non compreso da noi studenti, talvolta deriso per i suoi comportamenti che ci apparivano stravaganti. E infine il nome di Paolo Cristofolini, anche lui normalista, docente di filosofia della storia all’Università di Pisa e guida durante i sui corsi universitari nei miei primi incontri con Gramsci e poi con Spinoza. Cristofolini, Campione e Cazzaniga sono indicati da Deaglio come i principali estensori delle Tesi della Sapienza.
Ma la rete di intrecci della memoria non finisce qui perché la presenza tra gli occupanti della Sapienza che hanno dato vita alle Tesi della Sapienza di alcuni fondatori di Lotta Continua rimanda ad un altro episodio della storia del Movimento studentesco pisano non ricordato nel volume di Deaglio, ma importante come elemento rivelatore delle spinte che porteranno al Sessantotto e alle vicende che a Pisa lo caratterizzeranno. Nel 1964 Palmiro Togliatti venne invitato a tenere una conferenza alla Scuola Normale da Mario Cazzaniga e da altri esponenti di quella che era l’associazione studentesca delle sinistre, l’Ugi. Durante la conferenza, uno studente della Normale lo interruppe chiedendo “Perché non avete provato a fare la rivoluzione?” Togliatti rispose un po’ piccato, forse perché non si aspettava in quel contesto una contestazione da sinistra: “Provaci tu, a farla, se sei capace”, e lo studente, che altri non era che Adriano Sofri, a sua volta, replicò con quella sicurezza che sfiora l’impertinenza che certo non gli farà mai difetto: “Lo farò, lo farò”. E in effetti, anche se senza successo, ci ha provato negli anni successivi. Ma prima di provarci ha fatto altre cose, tra le quali insegnare. Ha infatti insegnato a Massa, sia all’Istituto magistrale Pascoli, dove tra le allieve c’era mia futura moglie, e dove trovò anche giovani babysitter per i suoi figli, e al Liceo classico Pellegrino Rossi, due istituti che al termine della mia carriera ho diretto come preside in parte influenzato da un passato di studente indisciplinato ma, nello stesso tempo, animato dalla idea che fosse più importante svolgere all’interno della scuola anche una funzione e di stimolo culturale piuttosto che aderire solamente alla figura più in voga di dirigente scolastico, gestore amministrativo di una anonima struttura burocratica. A Massa Sofri si iscrisse anche ad una sezione del Partito Comunista, per esserne rapidamente espulso, come era inevitabile, vista le premesse.
Come se non bastasse, a rendere più fitta la trama dei ricordi, le vicende sopra riportate mi richiamano alla mente la mia insegnante di italiano in terza liceo che si chiamava Alessandra Peretti ed era l’allora moglie di Sofri nonché madre dei bambini affidati alle cure delle giovani studentesse babysitter di Massa. Alessandra Peretti era allora una giovanissima insegnante, minuta, vivace, che ricordo con un viso perennemente sorridente e due grandi occhiali che accompagnavano costantemente il suo sorriso, anche se nella nostra stupidità di studenti liceali siamo riusciti a cancellare quel sorriso e a farla piangere. Era un’insegnante che si che si sforzava di insegnarci la letteratura in modo diverso da come ce l’aveva propinata fino a quel momento un docente di italiano sacerdote, un tale don Di Manno che sospetto provasse un sadico piacere nel tormentarci con le sue interrogazioni, le sue osservazioni su come ci vestivamo, sui nostri difetti e i suoi voti incredibilmente bassi assegnati ai nostri, forse maldestri, tentativi di scrittura scolastica senza comunque incoraggiarci o suggerirci come migliorarli. Era in sostanza l’esempio di come l’antiautoritarismo che aleggiava nelle scuole in quel periodo non fosse del tutto fuori luogo. Ricordo con rimpianto per non aver preso presi nella dovuta considerazione i tentativi di Alessandra Peretti, portati avanti in tandem con Mario Cazzaniga, di aprirci un po’ le menti con delle lezioni interdisciplinari e condotte in compresenza, cosa assolutamente nuova in quel liceo, di italiano, storia e filosofia, tra , un’assemblea, un’occupazione talvolta accompagnata dallo scontro tra chi voleva entrare a scuola e chi voleva occupare, qualche scontro tra manifestanti e polizia, uno sciopero, una goliardata e un corteo in difesa della Marzotto, fabbrica tessile che a Pisa stava chiudendo i battenti, o per la Saint Gobain che voleva licenziare una parte degli operai che in essa lavoravano (compreso mio padre, operaio in quella fabbrica dalla fine della guerra, preceduto nella stessa qualifica in quella stessa fabbrica da mio nonno morto sotto i bombardamenti alleati), in una città che vedeva aumentare a dismisura il numero degli studenti e diminuire verticalmente il numero degli operai. Quelli di Alessandra Peretti e di Mario Cazzaniga erano tentativi che, senza che noi ce ne rendessimo conto, costituivano un esperimento scolastico all’avanguardia. In realtà ottennero nella maggio parte di noi solo disinteresse e qualche contestazione dagli studenti della nostra classe politicamente più agguerriti e vicini al neonato gruppo di Lotta Continua. Questo era il clima di quegli anni a Pisa, una città che ha consentito a tanti giovani di tessere reti di destini, di vivere inconsciamente momenti di storia personale saldamente intrecciati con la storia con la S maiuscola, la storia del nostro Paese.
Per tornare alle Tesi della Sapienza, devo confessare che non le avevo mai lette fino a non molto tempo fa. In effetti avevo quattordici anni quando sono state elaborate e frequentavo ancora la terza media in una scuola riformata ma ancora avvolta dal clima della vecchia scuola media, con insegnanti attempati e legati a metodi tradizionali, come accadeva nelle scuole del centro cittadino precluse ai giovani insegnanti che erano destinati invece alle scuole di periferia e alle ex scuole che prima della riforma ospitavano le scuole di avviamento professionale abolite in seguito all’introduzione della scuola media unificata nel 1963. Dopo, quando sono arrivato al liceo e sono stato catapultato nel clima del lungo Sessantotto, le Tesi della Sapienza erano oramai un reperto quasi storico, quasi perché da un lato superato dall’evoluzione del movimento studentesco degli anni successivi e dall’altro invece divenuto un punto di riferimento teorico utilizzato, ad esempio, nel «Documento sul salario studentesco» del febbraio 1968, nella «Relazione sulla scuola» prodotta da Il Potere Operaio di Massa e di Pisa, organizzazione nata sulle ceneri del Movimento studentesco nato dalle Tesi della sapienza, durato un brevissimo arco di tempo e presto destinato a frantumarsi nei gruppi contrapposti di Lotta Continua di Adriano Sofri, del Circolo Carlo Marx di Cazzaniga e Campione e della Lega dei Comunisti che vide tra coloro che vi aderirono Luciano Della Mea, che lasciò il gruppo però poco dopo averlo fondato, i curatori della rivista Nuovo Impegno, Paolo Cristofolini e Romano Luperini. La natura di reperto storico delle Tesi l’ha ben descritta Michele Battini nel suo libro Un Sessantotto (Università Bocconi Editore, 2018). Le Tesi della Sapienza si collocano a cavallo tra il nuovo e il vecchio, tra un Movimento studentesco ancora legato alle associazioni studentesche (Ugi, Intesa, Fuan, Agi) e al parlamentino che le riuniva (Unuri), e un nuovo Movimento basato sul rifiuto della rappresentanza e sulle assemblee degli studenti. A testimoniare questo doppio legame sta il fatto che una versione delle Tesi della Sapienza verrà infatti presentata da Mario Cazzaniga al congresso di Rimini dell’Ugi come piattaforma da seguire e verrà posta in minoranza, ma l’UGI, dopo quel congresso scomparirà insieme all’Unuri e alle forme di rappresentanza delle associazioni studentesche.
Nell’Università di Pisa le Tesi della sapienza non nascono comunque all’improvviso. Il clima che culminerà nel Sessantotto era già presente a partire dalle agitazioni e dalle occupazioni che erano iniziate nel 1964, ma era rimasto nell’alveo di quella sorta di movimento corporativo legato alle associazioni studentesche fino al 1967, quando, nei primi giorni di febbraio, studenti di varie università decisero di occupare la Sapienza di Pisa per contrastare la Conferenza Nazionale dei Rettori, riunita a Pisa, proprio nella Sapienza, e poi trasferitasi nella Scuola Normale Superiore, in seguito all’occupazione studentesca. Durante quell’occupazione, terminata con l’ingresso della polizia nella Sapienza, furono elaborate le Tesi.
Nelle Tesi della Sapienza Michele Battini individua il legame con il passato, il legame che le separa dalle fasi successive del movimento studentesco del Sessantotto, nel filo sotterraneo e non esplicitato che, secondo Battini comunque, lega le Tesi all’articolo 3 della Costituzione e alla riflessione critica formulata da Lelio Basso, uno degli artefici di quell’articolo fondamentale inserito tra i Principi della Costituzione, sostenitore del suo ruolo come fonte di diritti sociali, in occasione del decennale della Costituzione relativamente alla mancata applicazione di quell’articolo. Lelio basso commentò l’articolo 3 sostenendo che “Uno Stato veramente democratico avrebbe dovuto contribuire positivamente per mezzo dell’intervento nell’economia, a migliorare la condizione delle masse, limitando se del caso, l’influenza dei potenti”. Qualche anno dopo, al Congresso nazionale del Psi del 1961 sempre Lelio Basso sostenne l’idea di “un’interpretazione non statica, ma dinamica della Costituzione, un’interpretazione che non si limita a vedere in essa una serie di istituti, ma in primo luogo vede la sovranità popolare come esercizio effettivo, permanente e quanto più possibile diretto del potere reale da parte delle masse popolari”. Secondo Basso “lo Stato democratico ha il dovere di creare tutte le condizioni per il pieno sviluppo e il benessere delle masse popolari”. Gli estensori delle Tesi sono in qualche modo sostenitori dell’interpretazione fornita da Lelio Basso dell’art. 3 della Costituzione che, secondo Battini, rompe con “la tradizione giuridica e costituzionale che aveva posto esclusivamente l’individuo proprietario come fondamento della cittadinanza (sia Locke sia Kant conferiscono la titolarità del diritto di voto esclusivamente a coloro che non vivono di salario e sono proprietari delle proprie forze) e definì il lavoro non una merce, come è di fatto il lavoro del lavoratore salariato, ma un valore costitutivo della dignità della «persona», dunque dei suoi diritti in quanto lavoratore e cittadino titolare della sovranità”. In tale interpretazione erano già contenuti “i principii del diritto allo studio correttamente inteso”, il quale niente altro è che “un caso particolare del diritto al lavoro”, che vengono richiamati quali elementi fondamentali delle Tesi. Secondo Battini la novità invece consisteva nella ricerca di una via diversa per affermare la sovranità popolare, diversa da quella del socialismo reale di stampo sovietico e legata al filone leninista, diversa da quella socialdemocratica e diversa dalla via italiana, la terza via, elaborata dal Partito Comunista Italiano, una via nata dal basso e solo dal basso, non attraverso i sindacati o i partiti tradizionali della sinistra, una via che doveva nascere dal controllo operaio inteso come autonomia, esercizio di controllo da parte di forme assembleari. In questo passaggio le Tesi cercano di saldare la prospettiva Costituzionalista con l’operaismo di Panzieri secondo il quale per sovvertire “l’uso capitalistico della scienza e della tecnica”, il contributo dell’intellettualità tecnica può essere determinante. Panzieri, nel periodo in cui si stava concretizzando la prospettiva del centrosinistra, sosteneva che le riforme erano irrealizzabili e in sostanza in linea con l’egemonia del capitale. Il capitalismo per Panzieri esercitava una forma di “disciplinamento dispotico” a partire dai luoghi della produzione e della formazione della forza lavoro intellettuale. Contro tale dispotismo l’unica arma possibile era la lotta operaia e studentesca finalizzata ad assumere il controllo della produzione. Una strategia in cui gli obiettivi corporativi di carattere sindacale venivano sostituiti da obiettivi dichiaratamente politici. In sintonia con le idee di Panzieri, il riformismo, ricordato nelle Tesi, non è tanto il progetto di riforma universitaria portato avanti dal ministro Gui, ma il Piano Pieraccini “Il piano della controparte non è tanto il piano Gui, quanto il piano Pieraccini od ogni altro tentativo di programmare lo sviluppo capitalistico. Nel quadro del piano Pieraccini, il piano Gui è da considerarsi come di fatto passato. A titolo di esempio, l’approvazione dei dipartimenti facoltativi rispecchia l’esigenza di creare particolari strumenti dove l’industria abbia determinate esigenze di ricerca, e non crearli dove queste esigenze dell’industria non ci siano”. Nelle Tesi si ritrova la prospettiva proposta da Panzieri quando si accenna alla necessità di interrompere il legame che unisce capitale, scienza e tecnologia all’interno di un piano di razionalizzazione e programmazione rivolto a esercitare il proprio dominio sui soggetti produttori e in definitiva sulle persone. L’autonomia entro l’ottica di Panzieri ripresa nelle Tesi era intesa come “controllo sulla propria condizione di studente e di lavoratore” e in definitiva della propria persona. È evidente il legame con le tendenze antiautoritarie e libertarie che animavano la dinamica culturale degli anni Sessanta in gran parte del mondo. Ma tale legame costituisce anche il limite delle Tesi della Sapienza, un limite costituito dall’essersi arrestate di fronte allo scoglio rappresentata dalla difficoltà di conciliare la Costituzione come intesa da Lelio Basso con la prospettiva di Panzieri dell’autonomia, come realizzare il controllo operaio sulla produzione basato su istituti di democrazia partecipativa dal basso tutti da ideare e delineare senza uscire dal solco democratico tracciato dalla Costituzione. Era un limite ereditato dalla prospettiva politica di Panzieri che non si proponeva di formare qualcosa di simile ad un nuovo partito ma richiamava forme di autonomia della classe operaia che prendessero in mano il controllo sui luoghi di lavoro senza specificarne la natura e il rapporto con il resto della società civile e politica. Per rendere concreta la proposta delle Tesi per la creazione di una nuova società guidata dai produttori e non dalla razionalità capitalistica che aveva sottomesso la tecnologia e la scienza ai propri fini sarebbe stato passo necessario un passo ulteriore mai compiuto.
In conseguenza del tentativo di mettere in relazione l’articolo 3 della Costituzione e l’operaismo del Panzieri della rivista dedicata prevalentemente all’analisi teorica Quaderni rossi, nelle Tesi si introduce all’interno del movimento studentesco l’idea che la controparte non è il corpo docente o l’istituzione universitaria. Nelle tesi si afferma in modo lapidario che “La controparte è la classe dominante” che determina la politica universitaria per stabilire un controllo della scienza e della tecnica e ridurle a strumento della produzione capitalistica curvando la formazione universitaria alle esigenze del capitalismo al fine di produrre forza-lavoro tecnica utile per perpetrare l’egemonia economica e sociale del capitale e stabilendo così un suo controllo dispotico sul lavoro, sia quello operaio che quello intellettuale. Ma nelle Tesi si pone anche un limite all’azione del movimento studentesco “Proporre un’alternativa generale significherebbe, a rigore, contestare la società capitalistica nella sua totalità. Il movimento studentesco è cosciente dei suoi limiti oggettivi, e non può proporsi quel compito. Indica pertanto uno schema alternativo alla società capitalistica soltanto per quanto riguarda la scuola. Precisare il tipo di società in cui tale scuola può sussistere, e i metodi per costituirla, è di importanza essenziale, ma esula da queste tesi”, un limite che verrà superato dalle formazioni che sono nate sulle ceneri del Movimento studentesco e che le porterà ad abbondonare ogni legame con il dettato costituzionale e a spostare il terreno di lotta dalla scuole e dall’università alla società nel suo complesso.
In sostanza nelle Tesi è presente la consapevolezza della dialettica difficile tra riforme e rivoluzione senza risolversi nell’una o nell’altra. Il diritto allo studio “rettamente inteso” veniva coerentemente definito un “caso del diritto al lavoro”: il diritto a “una formazione culturale autonoma” e a una “vita autonoma e socialmente completa”. Tale diritto per gli estensori delle Tesi esigeva la concessione di un salario diretto allo studente, degli assegni familiari alle famiglie di provenienza e politiche di Welfare State, cioè alloggi, trasporti, biblioteche, in sostanza una via riformatrice che vedeva nell’art. 3 della Costituzione il suo momento genetico, ma che nello stesso tempo rifiutava l’uso degli strumenti tradizionali per raggiungere tali obiettivi, la rappresentanza, i corpi intermedi, i partiti, i sindacati, in favore di forme di democrazia diretta, l’assemblea, e, in qualche modo strumenti di tipo eversivo: “Le occupazioni di sedi universitarie vanno istituzionalizzate, e ciò potrà essere fatto in futuro anche prescindendo da motivi contingenti di protesta. Le ragioni di tale istituzionalizzazione sono le seguenti: a. l’università appartiene alla base universitaria, e questo possesso va affermato contro le strutture esistenti che lo negano; b. la base e la sua rappresentanza devono studiare e discutere sempre la situazione e la linea di condotta, e la sede di questo lavoro è l’università; c. entro l’università, occorre esperimentare quei tipi di insegnamento e di ricerca fondati sul lavoro di gruppo, che le strutture esistenti impediscono e che la base ritiene indispensabili”.
Nelle Tesi si trovano quindi obiettivi concreti, rivolti a sanare le disfunzioni delle strutture scolastiche, obiettivi che corrispondono a quei valori nella Costituzione spingono all’eliminazione di tutte le barriere di carattere economico, sociale, giuridico che ostacolano la piena realizzazione dell’autonomia della persona e impediscono il raggiungimento di quella eguaglianza sostanziale evocata dall’articolo 3: “Il diritto allo studio appare, se rettamente inteso, come un caso particolare del diritto al lavoro; esso si configura quindi come diritto ad una formazione culturale autonoma, ed ha pratica attuazione nella scuola soltanto a patto che vengano salvaguardati in essa questi caratteri di formatività e di autonomia. Parlare di diritto allo studio significa perciò parlare nel contempo dell’eliminazione di quei fattori economici e sociali che oggi ne impediscono l’attuazione”. Ma nelle Tesi si trova anche l’idea che ad ostacolare tale realizzazione non siano solo ostacoli politici, soggetti sociali, ma un sistema che coinvolge tutto, apparati, istituzioni, un sistema che ha al suo centro il capitale e in particolare gli Stati Uniti che del capitalismo sono la guida. E contro tale sistema le riforme e i soggetti che lottano per portarle avanti appaiono inefficaci. Da qui la necessità di ricerca di un rapporto con la classe operaia vista come soggetto in grado di determinare il cambiamento necessario, un rapporto che nelle Tesi viene visto, non come un rapporto di collaborazione, ma di integrazione. Con la proclamazione nelle Tesi del “diritto allo studio correttamente inteso come un caso particolare del diritto al lavoro” si presupponeva che il movimento studentesco fosse una componente del movimento operaio e, dunque, si proponeva la costituzione di un sindacato di tipo nuovo: “Il sindacato studentesco è costituito dagli studenti che partecipano all’assemblea delle unità di base (nella struttura attuale, la facoltà e il corso di laurea; in quella da noi voluta, il dipartimento). Il sindacato studentesco attraverso l’analisi della condizione immediata dello studente e del rapporto fra questa e la realtà sociale in cui si situa permette e garantisce la contrattazione di tutti gli aspetti della vita studentesca. Il sindacato studentesco analizzando e contrattando il momento di formazione della forza-lavoro entra in rapporto con il sindacato operaio proprio perché il processo di formazione che il sindacato studentesco analizza e contratta altro non è che un primo momento dell’uso capitalistico della forza-lavoro. Il sindacato studentesco sulla base delle analisi che compie dello sviluppo capitalistico e della conseguente organizzazione del lavoro rivendica il suo inquadramento (assunzione) all’interno del sindacato operaio. Il sindacato studentesco è basato sulla partecipazione effettiva e cosciente degli studenti alle assemblee. Pertanto rifiuta il principio della delega dei poteri dell’assemblea a qualsiasi organismo più ristretto: in questo senso l’assemblea è tendenzialmente, e nei momenti di lotta effettivamente, permanente”. Un sindacato quindi di natura assembleare, con obiettivi politici espliciti e non di tipo corporativo, la lotta al capitalismo, un sindacato integrato con il sindacato operaio e non con i sindacati presenti in quel momento “Nell’enunciare questo concetto gli estensori di queste tesi ritengono di poter affermare come linea di tendenza la scomparsa o comunque la vanificazione dell’attuale pluralità sindacale che determina una situazione analoga a quella esistente negli altri paesi a capitalismo avanzato, ed in questo senso non pongono il problema della scelta fra l’una e l’altra delle centrali attualmente esistenti”. Un’idea che si disperderà nel corso degli anni successivi ma che in qualche modo troverà la sua realizzazione nella nascita della Cgil scuola proprio nel 1967.
Nel periodo successivo a quello delle Tesi molti dei problemi irrisolti presero una direzione insita nelle Tesi ma non definita come unica possibile. Il Movimento studentesco assunse la forma di un’organizzazione politica con il nome della rivista cui faceva riferimento: Il Potere operaio pisano massese. I problemi del diritto allo studio, del sindacato studentesco vennero assorbiti nella prospettiva politica che metteva in primo piano lo scontro sociale con un nemico totale al cui interno trovavano collocazione sia i sindacati che i partiti della sinistra. Il problema della rappresentanza veniva collocato all’interno “dei rapporti di vertice con i partiti e i sindacati” e quindi rifiutato in linea di principio per non ricadere in forme di istituzionalizzazione ritenute estranee all’autonomia operaia, che diventava nella prospettiva dei nuovi soggetti politici un mito, superato a sua volta, soprattutto da parte di Lotta Continua, che rivolse la sua attenzione ad altri strati della società, agli sfrattati, ai disoccupati, agli emarginati in genere. Battini giustamente suggerisce che “La politica ‘del diritto allo studio rettamente inteso, come un caso particolare del diritto al lavoro’ e ‘a una formazione culturale autonoma’, avrebbe implicato invece l’articolazione flessibile del progetto delle lotte per il salario e per le libertà studentesche in una politica di trasformazione generale di tutto il sistema universitario e scolastico, a partire dalla scuola dell’obbligo, dunque un rapporto flessibile con i partiti e le forme della rappresentanza istituzionale, nel quadro di un confronto sociale generale con i poteri industriali e finanziari. Avrebbero insomma reso necessaria una più raffinata dialettica tra ‘democrazia assembleare’, rivendicata nelle Tesi, e democrazia costituzionale”. Ciò non è avvenuto. Le formazioni politiche che hanno preso il posto del movimento studentesco furono caratterizzata da atteggiamenti trionfalistici come se la rivoluzione fosse alle porte e intere masse fossero solo in attesa del segnale di avvio della rivoluzione. A fianco del trionfalismo c’erano poi atteggiamenti di “irriverente baldanza” nei confronti degli avversari e di “settarismo nei confronti del movimento operaio ufficiale” che non potevano portare che a imboccare una strada senza uscita, quello dello scontro frontale in campo aperto. Il rapporto con la Costituzione presente nelle Tesi fu completamente cancellato dai programmi delle formazioni politiche che costituirono la “nuova sinistra”. L’intervento dello Stato in economia veniva visto da tali formazioni come emanazione del capitale, lo Stato stesso appariva soltanto come nemico contro il quale combattere all’interno di uno scontro generale impari e destinato alla sconfitta già in partenza. L’idea che lo Stato fosse poi solo un servo del capitale portò a sottovalutare l’importanza di elementi quali il sistema della divisione dei poteri, il sistema dei controlli e della rappresentanza parlamentare, il ruolo dei corpi intermedi in una democrazia che certamente doveva accentuare la sua dimensione partecipativa, ma che non doveva essere identificata come una componente della controparte da sconfiggere.
Secondo Battini, con l’affermarsi dei gruppi che presero il posto del movimento studentesco si affacciò sulla scena politica “una nuova ‘leva’ di militanti, composta da studenti e da giovani operai ribelli” portatori di “un proprio sistema di valori e una propria ‘economia morale’, e la loro soggettività radicale apparve sensibilmente diversa da quella dei primi protagonisti che avevano dato avvio alle agitazioni nel 1967 e 1968”, una cultura che aveva le caratteristiche di una controcultura radicale che professava la necessità di una “contro-violenza degli oppressi” come arma di lotta che veniva “invocata come ineluttabile atto di giustizia per risarcire un dolore e tener fede a un affetto”. Alla base della cultura delle nuove leve della militanza c’era una sorta di nuovo “romanticismo rivoluzionario” basato sul “mito della comunità solidale con gli oppressi” in grado di produrre “l’odio verso gli oppressori e chi impersonava il male, l’ingiustizia sociale, la forza dello Stato esercitata solo contro i deboli, gli sfruttati, i poveri”. Aggiungerei anche un romanticismo ancora legato da un lato all’idea della classe operaia come futura classe universale in grado, in quanto proprietaria della sola forza lavoro, di farsi portatrice dell’interesse generale e perciò destinataria della sovranità e capace di esprimere la volontà generale espressa dal romanticismo sessantottesco non attraverso le avanguardie organizzate in partito, ma attraverso organi assembleari, e dall’altro da idea delle masse popolari come spontaneamente pronte a ribellarsi contro un nemico di cui si sottovalutava la forza e la capacità pervasiva non solo a livello economico o politico o addirittura eversivo ma anche e soprattutto a livello culturale. Ancora a tali miti si aggiunsero quello della figura del “Che”, del rivoluzionario senza patria, del guerrigliero che muore per difendere le sue idee, e quello della Cina come alternativa socialista al socialismo sovietico, del libretto rosso e di Mao, della Rivoluzione culturale, dei contadini.
L’analisi di alcuni giornali di quel periodo ‘Potere operaio (quello veneto-romano e non quello pisano massese)’, ‘Servire il popolo’ e ‘Lotta Continua’ condotta dalla linguista Patrizia Violi (I giornali dell’estrema sinistra, Garzanti 1977) conferma la presenza di tali componenti nelle formazioni politiche postsessantottine e animatrici del lungo sessantotto italiano. Da tali analisi emerge che due elementi sono caratterizzanti la politica delle neoformazioni, il settarismo verso gli altri gruppi facenti parte della nuova sinistra e il trionfalismo. Secondo Partrizia Violi i giornali cui fanno riferimento i gruppi politici della nuova sinistra rivelano una tendenza ad esasperare le differenze e a mettere in secondo piano tutto ciò che può essere condiviso, una tendenza che impedisce il confronto, la mediazione e favorisce la perdita del senso del limite e il dogmatismo, la perdita di contatto con la realtà. Su Lotta Continua dell’anno II numero 8 si legge “Il Movimento Studentesco ha generato solo utili idioti al servizio del riformismo”. E riguardo ai gruppi che si rifacevano all’operaismo di Panzieri “I gruppi operaisti sono ‘infantili’ e staccati dalle masse” (Lotta Continua anno II n. 2). Un autoritarismo di sinistra prende il posto dell’antiautoritarismo, condividendo, secondo Patrizia Violi, con l’autoritarismo della controparte la stessa struttura mentale. Manca in questi gruppi la capacità di autocritica, una mancanza che sfocia nel trionfalismo responsabile di ridurre la complessità del reale in schemi e in stereotipi. Per le neoformazioni di sinistra, il trionfalismo, secondo Violi, costituiva una sorta di elemento autoconsolatorio di fronte a situazioni derivate dal calare la realtà all’interno di propri schemi ideologici e quindi sconfessati dagli eventi, un atteggiamento in sostanza di carattere illusorio. Da tale atteggiamento scaturiscono affermazioni quali “I padroni sono oramai alle corde” (Lotta Continua a. II n. 17), oppure “I padroni sono tigri di carta, visti da lontano possono spaventare, visti da vicino non fanno poi tanto effetto” (Lotta Continua a. II n. 10), o ancora “La classe operaia sta sferrando un attacco che aggraverà e renderà insolubile la crisi capitalistica […] La durezza stessa dello scontro e la possibilità di spingerlo vittoriosamente fino in fondo non condurranno certo alla sconfitta: il proletariato ne uscirà meglio armato politicamente e fisicamente”. (Lotta Continua a. II n. 12).
L’ambiguità ricca di potenzialità delle Tesi venne trasformata dai movimenti politici che presero il posto del Movimento studentesco in una politica improduttiva caratterizzata da un nuovo tipo di autoritarismo e dall’uso facile della violenza. Certo, tale indirizzo venne facilitato anche dagli eventi esterni, dall’affermarsi della strategia della tensione portata avanti dalle formazioni neofasciste e probabilmente anche da settori deviati degli apparati di sicurezza dello Stato a partire dalla strage di piazza Fontana a Milano nel 1969, per continuare nel 1970 con la strage di Gioia Tauro, nel 1973 con la strage della questura di Milano, nel 1974 con la strage dell’Italicus e la strage di piazza della Loggia e ancora nel 1980 con la strage di Bologna. Non solo, anche altre situazioni contribuirono a determinare quella pressione esterna sulle forze che spingevano verso il cambiamento, situazioni che facevano pensare a svolte eversive come erano avvenute in Grecia nel 1967 e avverranno in Cile nel 1973, la progettazione e la minaccia di colpi di Stato come il piano Solo del generale De Lorenzo nel 1964 e il tentato golpe Borghese del 1970, situazioni che si affiancavano alla convinzione della forza conservatrice e reazionaria legata alla continuità di norme, istituzioni e uomini transitati dal regime fascista alla Repubblica, situazioni che portavano i neomovimenti a vedere una continuità tra liberalismo democratico parlamentare e fascismo. E infine la crisi energetica del 1973, una crisi che chiuse una stagione, la stagione che vedeva nella crescita economica indifferenziata il motore di un progresso continuo e illimitato, la stagione che aveva consentito l’affermarsi dello stato sociale, del riformismo, della crescita dei consumi e di un modello di benessere basato sul possesso di beni materiali acquistabili a buon mercato.
Tutto ciò non cancella il fatto che in quegli anni si realizzò la più forte discontinuità nella vita culturale e sociale del secolo passato, una discontinuità caratterizzata dall’affermarsi di una mentalità libertaria e antiautoritaria che portò all’approvazione di leggi, per quanto riguarda l’affermarsi di una democrazia più partecipativa, quali l’istituzione nel 1970 delle regioni a statuto ordinario e nel 1974 l’approvazione dei decreti delegati che introducevano una forma di democrazia nella scuola; per quanto riguarda l’istruzione l’istituzione nel 1968 di quella che allora si chiamava scuola materna statale, l’istituzione nel 1971 degli asili nido pubblici per i bambini da 0 a 3 anni e, nello stesso anno, l’istituzione della scuola a tempo pieno che prevedeva più ore di scuola, più attività, più docenti per una stessa classe e favoriva la conciliazione tra lavoro e famiglia soprattutto per la donna, nel 1977 l’abrogazione delle classi differenziali e l’introduzione dell’insegnante di sostegno; per quanto riguarda il mondo del lavoro nel 1970 l’approvazione dello statuto dei diritti dei lavoratori che riguardava i diritti sindacali, l’affermazione della libertà e della dignità del lavoratore all’interno del rapporto di lavoro, la sua tutela nei confronti dei licenziamenti ingiusti, nel 1971 la legge per la tutela delle lavoratrici madri con il riconoscimento dei permessi per maternità e il divieto di licenziamento in gravidanza, nel 1973 la legge per la tutela del lavoro a domicilio contro la nocività, le discriminazioni e il supersfruttamento, nel 1977 la legge di parità fra uomini e donne sul lavoro che prevedeva parità salariale e non discriminazione; per quanto riguarda gli aspetti giuridici nel 1972 la legge sull’obiezione di coscienza che consentiva, fino all’abolizione della leva obbligatorio per la popolazione maschile, a chi non voleva impugnare le armi di non finire nel carcere militare e di assolvere l’obbligo verso il paese con il servizio civile, nel 1975 la riforma penitenziaria finalizzata a favorire l’umanizzazione della pena attraverso possibilità di lavoro e formazione durante il periodo di carcerazione e attraverso permessi, nel 1981 l’abrogazione degli articoli del codice penale sulle attenuanti per delitto d’onore e sulla cancellazione del reato di stupro in caso di “matrimonio riparatore”; riguardo alle relazioni tra i generi e alla questione femminile nel 1970 l’introduzione del divorzio, confermato dal referendum del 1974, che rende il matrimonio non più un vincolo a vita, ma una libera scelta, nel 1975 l’approvazione del nuovo diritto di famiglia che pone fine alle diseguaglianze all’interno della famiglia e quindi nella società tra uomo e donna abolendo lo status di capofamiglia e introducendo uno statuto di parità di diritti e doveri per uomini e donne, nel 1978 l’abrogazione del reato di aborto, abrogazione confermata con il referendum del 1981, per contrastare le morti per aborto clandestino; per quanto riguarda l’aspetto sanitario nel 1975 , la nascita dei consultori per favorire la salute in relazione alla maternità, la contraccezione e la sessualità consapevole, sempre nello stesso anno la legge che introduce le norme per la prevenzione, la cura e la riabilitazione della tossicodipendenza, nel 1978 la riforma sanitaria che abolisce le “casse mutue” per categorie e dà vita al servizio sanitario nazionale per tutti, ancora nel 1978 la legge 189, la cosiddetta legge “Basaglia” che chiude manicomi, introduce l’assistenza territoriale per la malattia mentale e afferma la piena dignità delle persone con problemi mentali e infine nel 1976 la legge Merli per tutela delle acque dall’inquinamento che introduce un primo embrione di quella che sarà negli anni successivi la lotta per la tutela dell’ambiente.
L’insieme delle leggi sopra elencate, che è il frutto non solo e non tanto della politica delle formazioni della nuova sinistra, ma piuttosto della spinta libertaria e antiautoritaria di carattere anche prepolitico e culturale che ha coinvolto mentalità, soggetti politici, istituzionali, è sufficiente a fornire le dimensioni della discontinuità rappresentata da quegli anni rispetto alle trasformazioni dell’intero Novecento. Ciononostante non si può non riconoscere il fallimento politico delle forze che hanno dato vita al Sessantotto, un fallimento che è stato causato anche e soprattutto dal mancato incontro tra le tradizionali forze democratiche e le nuove formazioni originate dal Movimento studentesco e poi da quello operaio della fine degli anni Sessanta, un mancato incontro che ha incanalato la politica delle nuove formazioni in una strada senza fondo e ha fatto arenare la politica delle formazioni tradizionali della sinistra nelle secche di una politica sempre meno legata al coinvolgimento dei cittadini che si rifletterà sul progressivo aumento dell’astensionismo e del distacco dalla politica. Come conseguenza di tale fallimento il processo di trasformazione dello Stato e della società si è arrestato. Forse solo l’arrivo dell’Unione Europea ne ha consentito in parte la ripresa.
La mia esperienza politica di quegli anni è legata non tanto all’incontro con il Movimento studentesco, ma con le neoformazioni che si sono succedute a tale movimento. Un impatto che è stato essenzialmente di rifiuto del nuovo autoritarismo, dello scontro ad ogni costo, della condanna delle istituzioni democratiche e rappresentative, un rifiuto accompagnato dalla consapevolezza, comunque, che era necessario il parallelo rifiuto dell’autoritarismo nella scuola, nell’università, nella società. Spinte che mi hanno portato ad aderire al Partito Comunista di Berlinguer, a condividere l’idea del compromesso storico come strumento per difendere la democrazia dai pericoli di una svolta autoritaria che, dopo il Cile, sembrava possibile, a ritenere che l’austerità e la questione morale fossero fondamentali per disegnare un nuovo tipo di società. Fu un’adesione dettata anche dall’idea che la responsabilità e il senso della realtà dovevano prevalere sull’immaginazione e il desiderio come spinte dell’azione, immaginazione e desiderio che possono essere, se non indirizzati dallo sguardo legato da un lato alla cultura del sospetto che impedisce l’identificazione totale con l’appartenenza, e dall’altro a quello che Iacono chiama lo sguardo che con la coda dell’occhio consente di vedere l’alternativa senza perdere di vista la realtà, gli strumenti per la creazione di immagine allucinatoria che trasforma il proprio sogno in una falsa realtà. Fu un’adesione sofferta perché non mi sentivo comunista, non riuscivo a pronunciare quella parola che sembrava compattare tutti coloro che mi stavano dintorno nelle riunioni, nelle feste dell’Unità, nei cortei, apparentemente riducendo le differenze di status sociale, di cultura, la parola “compagno”. Ritenevo in qualche modo che un sano individualismo fosse l’antidoto nei confronti di un senso di appartenenza che, se non controllato, rischia di risucchiare la coscienza individuale nella ideologia dell’identità di comunità, determinando così l’affievolirsi di quell’autonomia che Kant definisce come capacità di pensare con la propria testa e che è alla base della democrazia autentica, della non ridotta a democrazia recitativa lo storico Emilio Gentile definisce la democrazia che salvaguarda solo la dimensione formale e procedurale e non i contenuti.
Anche la scelta di aderire al Partito Comunista si è poi rivelata fallimentare dopo l’arresto del processo di avvicinamento tra i grandi partiti popolari avviato da Berlinguer e Moro a causa del rapimento e dell’uccisione del segretario della DC nel 1978. L’idea dell’alternativa lanciata da Berlinguer alla fine degli anni Settanta si infrangeva contro il craxismo e l’affermarsi del neoliberismo che ha rimesso al centro dei meccanismi regolatori della società il mercato al poso della politica e ha relegato lo Stato in un ruolo subalterno rispetto ai poteri espressi dalla finanza, l’individualismo sfrenato degli anni Ottanta, un individualismo che ha dilatato i diritti cancellando il ruolo dei doveri e della responsabilità personale e sociale e che ha trovato un terreno fertile nella cultura espressa negli anni Novanta dalle televisioni di Berlusconi. Ancor più, improduttive si sono rivelate le parole d’ordine dell’austerità di fronte al dilagare del consumismo e quella della questione morale con la crisi dei partiti sfociata nell’autodistruzione portata poi a termine da Tangentopoli agli inizi degli anni Novanta, una fine che ha privato il Paese di questi importanti corpi intermedi cui era stato assegnato dalla Costituzione il compito di mediazione tra lo Stato e il potere e il popolo, compito venuto meno nel momento in cui i partiti sono diventati corpi politici con l’unico fine di conservazione delle élite che ne hanno preso la guida, compito non rinnovato dalle nuove forme partitiche che li hanno sostituiti legate al culto della personalità, dell’uomo forte, della delega totale a tali figure della capacità di risolvere i problemi sostenuta anche dalle nuove forme di comunicazione, della trasformazione della democrazia in una democrazia recitativa in cui viene salvaguardata solo la forma.
Nei primi anni Ottanta ho abbandonato il Partito Comunista spinto forse anche da una vena libertaria destinata a lasciare chi ne è percorso nella costante inquietudine, nell’incapacità di immedesimarsi nelle comunità da cui in qualche modo è anche attratto, una vena ereditata dalla cultura del Sessantotto, di quel primo Sessantotto antiautoritario che ha cambiato profondamente la società e lo Stato, che ha mostrato una possibilità diversa da quella dello scontro frontale, la possibilità della via democratica, una via ancora non ultimata, messa in pericolo dalle attuali derive culturali e politiche, anche se in quel movimento debole era la consapevolezza che la diversità, il confronto tra diversi, il conflitto regolato tra gruppi politici, tra classi sociali, tra soggetti portatori di interessi diversi è l’anima vitale delle democrazia, che la struttura in grado di regolarlo si trova nelle istituzioni e che le istituzioni debbono muoversi all’interno di un sistema che impedisce l’appropriazione dell’esercizio del potere in modo assoluto da parte di chi vince le elezioni attraverso la presenza di pesi e contrappesi, di forme di controllo, di un’ampia libertà di espressione e di informazione.
Queste forse sono riflessioni che somigliano un po’ alla hegeliana nottola di Minerva che inizia il suo volo quando il sole è già tramontato e il crepuscolo si avvicina. Certo accettare che sia questa la natura di queste riflessioni significa anche accettare l’idea del filosofo tedesco che la riflessione ragionevole non ha il compito di trasformare la società, ma solo quello di tentare di fornire un senso a ciò che è già accaduto una volta che i giochi sono stati fatti. E alla mia età forse questa è l’unica cosa che è consentito fare, nella speranza che i giovani possano invece prendere in mano le redini del carro per agire e guidare il processo necessario di rinnovamento sulle basi di una ragionevolezza che contraddica l’idea hegeliana della nottola di Minerva. I giovani studenti autori delle Tesi hanno tentato di farlo, alcuni risultati sono stati conseguiti, altri no. Ma ciò non significa che le sconfitte siano per sempre.
massimocec febbraio 2025
Breve bibliografia:
| Indice | C’era una volta in Italia | Gli anni Sessanta | Gli anni Settanta |
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