Sulle ferite del virus

di Ovidio Della Croce

La Voce del Serchio

Finalmente domenica del 2 agosto 2020

Amica cara,
 
lo so che non hai mai abbandonato il logos. È difficile seguire questa tua lezione. Ho acceso la radio e ho ascoltato una riflessione filosofica sul tempo che stiamo vivendo e sulla possibile cura alle ferite che il Covid ha inferto e ha fatto venire a galla. Ammetto di non aver studiato seriamente la filosofia, tu invece sì, però il filosofo spiega bene e mi pare di capire. Una frase come questa, in momenti drammatici possiamo provare a mettere ordine nei nostri pensieri e nei desideri nella misura flebile in cui siamo capaci di farlo, è facile da capire. Proviamoci.
 
Le cose capitano e a noi è capitato il virus. Però voler sfruttare fino in fondo la natura trattandola come cosa crea una situazione non voluta che ci fa molto male. La natura offesa si vendica con gli interessi, dice il filosofo. Capisco la metafora, ma la natura non si vendica, segue il suo corso, le sue regole che noi conosciamo solo in minima parte, indifferente nei confronti dell’uomo, se l’uomo sparisse dalla terra la natura non se ne accorgerebbe nemmeno, visto che il nostro universo è un granello rispetto alla moltitudine di universi. La natura non è vendicativa, è indifferente. Certo che bisognerebbe essere meno aggressivi con la natura. Nel senso che l’uomo dovrebbe curare anziché minacciare ed eliminare le precarie condizioni che consentono a lui e ad altri esseri viventi di sopravvivere sulla Terra. Questo spero che si traduca in azione reale, ma non so se succederà.
 
E poi siamo fragili e quello che facciamo è lottare per prenderci un po’ più di tempo di vita, questo te l’avevo scritto anche in un messaggio. Siamo esseri umani vulnerabili e questo ci crea angoscia. Vale la pena fare quello che stiamo facendo se siamo così deboli? La conosco la tua risposta, me l’hai scritta in un messaggio. No, no, dobbiamo continuare cambiando qualcosa. Intanto è bene pensare che siamo tutti uguali di fronte alla pandemia, non mi riferisco ai beni materiali, ma al fatto che apparteniamo tutti al genere umano. Ecco, siamo della stessa specie, che non ha una religione né un’ideologia, è un acchiappatutto, un’arca di Noè. Dentro ci sono proprio tutti. Stamattina ho sentito uno dire al bar che era una buona giornata perché non c’erano nuovi cartelli mortuari affissi sul muro. Quando vedesti la foto sulla bacheca con scritto Ciao Enrico non avesti bisogno di chiedere conferme, perché quell’immagine sobria, eloquente e triste diceva tutto. E a quel punto il tuo logos vacillò, ma dopo riuscisti a sdrammatizzare pensando a quanta allegria il nostro Enri ci aveva regalato. Era come un fratello. Ecco cosa abbiamo capito o avremmo dovuto capire: il virus ci affratella. La natura e i virus non distinguono, non guardano chi colpire anche se le condizioni create dall’uomo in qualche modo orientano anche i virus, come sta accadendo in Brasile, in India, negli Stati Uniti, paesi che hanno fatto scelte diverse dalle nostre, cinicamente, esplicitamente, sacrificando vite pur di non chiudere.

L’affratellamento è un moto di reazione che deve partire dall’uomo, come replica all’indifferenza della natura, lo scriveva già il gobbetto di Recanati. La morte non riguarda solo Tizio o Caio, ma può riguardare l’intera umanità. La vita è una malattia a trasmissione sessuale; e ha un tasso di mortalità del 100%. Questa immagine tragica della vita è di uno psichiatra. La fragilità non è solo malattia, che è uno stato eccezionale, ma una condizione normale dell’uomo. Il coronavirus ha aumentato la consapevolezza della nostra fragilità. Questo fa veramente tremare il nostro logos. Ora non la voglio fare troppo lunga, scrivo solo le domande emerse durante la conversazione radiofonica. Cosa è il progresso? Inquinare il mondo? Fregarsi del riscaldamento terrestre? Immagino la tua risposta. No, no, non è questo, questa è un’idea angusta, bisogna darci una regolata. È meno egoismo e più comunità. Sì, d’accordo, tu mi conosci, sono di carattere aperto, però il virus ha scatenato in me una diffidenza verso gli altri, perché lui usa il corpo degli altri per arrivare a me. E allora hai voglia di dire “gli altri siamo noi”, come cantava Umberto Tozzi al Festival di San Remo nel 1991. Trent’anni dopo siamo alla distanza fisica, te lo saresti mai immaginato? No. Neppure io. Sì va bene, però dobbiamo continuare ad avere fiducia negli altri, se no non ne usciremo vivi. Pensa a un grande direttore d’orchestra, non potrebbe essere così grande se non avesse bravi musicisti. Io con gli altri sono meglio e gli altri senza di me sono peggio. Fin qui ho riportato in modo chiaro il discorso del filosofo?
 
Quindi, ci vuole un’unità profonda con gli altri, questo è un tasto su cui sei sempre stata sensibile. Da soli i miei interessi e desideri svaniscono, la mia vita perde senso. Che ci sto a fare al mondo? Ricordo un’immagine della terra con lo slogan L’abbiamo avuta in prestito da chi verrà dopo di noi. Il mondo va rispettato perché ci sono gli altri dopo di noi. Non me ne hai mai parlato, ma so che tu pensavi a quello che ci sarebbe stato dopo la vita terrena. Del resto le persone fanno testamento. Anche tu l’hai fatto. Le nostre volontà vogliamo che siano rispettate dopo di noi. Il sottoscritto tal dei tali, nel pieno delle facoltà mentali lascia i beni materiali a moglie, figlia, sorella, amici e persone care. E magari segue con precisione cosa e a chi. Però io vorrei lasciare anche quello che desidero. Desidero che venga sostenuta la lotta contro il cancro, che venga potenziata la ricerca di un vaccino contro il virus, che la sanità pubblica sia migliore. E poi ci sono i grandi ideali. Io desidero la pace nel mondo. Vorrei che diminuissero la povertà e le ingiustizie. Il dopo vita è importante, anche senza di noi. Nei testamenti sono frequenti le donazioni a istituti di ricerca, associazioni e fondazioni benefiche. Anche tu hai espresso desiderio di sottoscrivere per il reparto di oncologia dove eri ricoverata.
 
Poi il filosofo ha parlato di economia. Non è il mio campo, però ha detto una cosa è facile da capire: salvare vite è importante come salvaguardare l’economia. La vita va considerata dal punto di vista della malattia, ma anche dal punto di vista della sopravvivenza materiale. L’economia c’entra con la vita. E la politica è lo spazio in cui si decide. Dirlo è semplice, farlo è difficilissimo.
 
Il filosofo ha parlato della meditazione, della cura di sé, intesa anche come esercizio, pratica che unisce oriente e occidente, meditare provoca un certo distacco dal quotidiano e dal banale. Naturalmente è difficile. Occorre lavorare sodo sopra di sé. Proprio così non l’ha detto, ha detto frasi tipo se ritrovo un po’ me stesso e la forza di prendere cura di me, cosa sono, cosa voglio essere, che rapporto ho con gli altri, recuperare un senso del limite a sé stessi, per esempio che bisogno ho di avere gli armadi pieni di vestiti o l’ultimo modello di telefonino? Trovare situazioni alternative e cercare qualcosa del genere simile alla spiritualità deve darti una qualche soddisfazione. Scusa, ho semplificato, ho sintetizzato forse in modo banale o anche peggio. Però una cosa l’ho capita. In occidente a chi fa il filosofo di solito gli viene domandato quali teorie ha. In oriente gli si chiede: fare il filosofo in che modo può cambiare l’esistenza? Le due cose vanno messe insieme, dice il filosofo alla fine, non puoi teorizzare se non cambi facendolo.
 
Ecco, dunque, finisco su una cosa che mi ha colpito. Il filosofo ha parlato delle istituzioni come i soggetti dell’etica pubblica, ha detto che se sono sane e solide migliorano le persone e le ha paragonate alle piante. Bisogna annaffiarle e curarle, il cittadino deve coltivare le istituzioni, idea che si riallaccia a quella della comunità come unità organica. Se i cittadini non sono bravi giardinieri le istituzioni sono cattive. Non so cosa abbia a che fare con questa idea dei cittadini, ma a me è venuto in mente il film Oltre il giardino, te lo ricordi? Certo, Chance il giardiniere. Sì, il protagonista è un’analfabeta che ha vissuto fuori dal mondo in compagnia della televisione. Si ritrova in una villa del consigliere del presidente degli Stati Uniti, gli chiedono cosa pensa della situazione politica, lui risponde con ingenuità, tutti rimangono colpiti dalle sue metafore botaniche e lo scambiano per un saggio. Il film finisce in una maniera sorprendente che non voglio rivelare. C’è una frase che viene detta alla fine La felicità è uno stato mentale. È possibile che sia davvero questo.
 
Non so se sia troppo tardi per questa discussioncina filosofica, ma ho voluto farla, agosto è il tuo mese, ci sei nata. Penso di aver toccato tutti i punti, auguro a tutti una felice domenica d’agosto.
 
Post scriptum
Il filosofo cui mi riferisco è Sebastiano Maffettone, autore de Il quarto shock. Come un virus ha cambiato il mondo, Luiss University Press, 2020. Collegandolo ai tre grandi shock o traumi intellettuali e materiali. Il primo è Copernico, che ha tolto la terra al centro del cosmo. Il secondo è Darwin, che ha tolto l’uomo al centro del creato. Il terzo è Freud, che ha dimostrato come non siamo padroni neanche a casa nostra, visto che il nostro io è dominato da pulsioni e istinti.
La trasmissione radiofonica è “La cura” su Radio 3, con Marino Sinibaldi, iniziata sabato 11 luglio proprio con Maffettone; si tratta di dieci conversazioni sulla pandemia, è un progetto che ha l’ambizione di capire che esperienza abbiamo vissuto, quali ferite vecchie e nuove si sono aperte e quali possibili terapie.
Grazie a Massimo Ceccanti che ha studiato seriamente la filosofia, ha letto e rivisto il testo e ha fatto il fotomontaggio Giardino della cittadinanza, gli errori naturalmente restano miei.