Stelvio Sbardella

GALLERIA

Girovagando su internet in questi giorni ho trovato un breve testo che mi ha riportato indietro nel tempo, a quando eravamo emigranti in Valtellina:

In questi giorni di caos, in questo periodo di sospensione, ansia e apprensione, ma anche di comportamenti umani che mai avremmo pensato di vedere, sentire o vivere, spesso mi ritrovo a chiedere che cosa ne avresti pensato di tutto ciò. Mi domando come l’avresti vissuta e come, poi, l’avresti raccontata. Di sicuro ne avresti scritto qualcosa: una poesia, una commedia, un romanzo o forse anche solo una battuta. Probabilmente avresti colto il lato più tragicomico della vicenda magari raccontando di quelli che dalla finestra fotografano chi va a correre o di quelli che vanno a fare la spesa tutti i giorni come se non fosse successo niente oppure di quelli che, al contrario, hanno riempito le dispense di cibo in scatola come s’era visto solo nei film apocalittici. Ecco, ora che la sceneggiatura di lungometraggio sull’apocalisse sembra essere diventata realtà, tu non ci sei per raccontarla, per farci ridere a una cena o da un palco oppure da dietro una cattedra. In ogni caso, ovunque tu sia, continua a scrivere, ad andare a tartufi e a pesca, rigorosamente a galleggiante perché, come mi dicesti quella volta: “Gli ultimi romantici rimasti sono i pescatori a galleggiante.”
Ciao Zio. 
Jacopo.

Ho conosciuto questo zio di Jacopo, era un mio amico, Stelvio Sbardella, anche lui insegnante emigrato. Lo rivedo nelle parole di Jacopo, il nipote. Continuando le mie ricerche su internet ho trovato che anche Jacopo scrive racconti. Non può non essere che una traccia lasciata da Stelvio. Persone come lui non passano senza lasciare tracce. Forse mi piacerebbe anche parlare di Stelvio con Jacopo. Forse, passato questo periodo di “clausura”, potrebbe accadere. Intanto continuando con le mie ricerche ho rintracciato quello che Jacopo aveva scritto quando Stelvio morì.

“– Zi’, se te devo di’, a me l’unica tecnica de pesca che me piace è quella a galleggiante.
– Anche a me.
– Che poi, mica lo so perché, voglio di’, ce ne stanno tante de tecniche de pesca: a mosca, a spinning, all’inglese…
– Io lo so perché.
– Perché?
– Perché semo romantici, ce piace vede’ il galleggiante che affonda e sparisce sott’acqua quando il pesce abbocca. Ché non sai che sta a succede là sotto, ma qualcosa sta a succede. Semo romantici. L’ultimi rimasti.
Ciao Zi’!” 

Leggo ancora che a Stelvio Sbardella è stata intitolata la biblioteca della Valtopina, un toponimo che spesso Stelvio pronunciava con nostalgia, una biblioteca costituita con le donazioni di volenterosi donatori da ogni parte d’Italia, una modalità che Stelvio avrebbe senza dubbio condiviso e patrocinato, un’altra traccia insieme alle sue poesie, ai suoi libri: ““Il pianeta di Oca Oca”, “Celestino 5: il papa eremita”, “L’amore tagliato: storia di Eloisa e Abelardo”, “Lu gallu feta: poesie in dialetto spoletino”, “Al di la’ del sentiero dei pioppi”, “‘Na parlata che non more mae : poesie dialettali”, “Agra vita migrante: un emigrante italiano nell’Europa degli anni’60-’70”, “Sillabe al vento” e “Il Predicatore scalzo: San Bernardino da Siena, il santo che scuoteva le coscienze”, alle sue commedie delle quali, come leggo su Internet e come immagino sia avvenuto dopo averlo conosciuto, a volte è stato anche attore: “AMMENE”, “LU TESORU DE MAMMA NUNZIA”, “SEMO TUTTI COMMENDATÒ” ,  “BOCCACCIO MIA”, “LA VIOCCA” e “Convivio d’Amor e d’ Inquintana” e ne parlo con Ovidio che ha condiviso questa amicizia.

Danilo Chiodetti legge la poesia “Ode a lu paese mia” tratta dal libro “Lu gallu feta: poesie in dialetto spoletino” di Stelvio Sbardella (dal sito Spoleto 7 giorni, 26 marzo 2020):


massimocec novembre 2020


Ho conosciuto Stelvio Sbardella nel 1983 a Morbegno. Massimo l’anno dopo. Eravamo là perché avevamo vinto il concorso per l’insegnamento, io a Sondrio e lui a Como, e abitavamo insieme. Di questi due anni il secondo è stato quello di maggior frequentazione con Stelvio. Non ricordiamo il momento preciso in cui la nostra conoscenza diventò amicizia. Forse perché Stelvio aveva un nome appropriato per quei posti e aveva un modo di parlare che faceva sentire bene quali erano le sue radici. Era di Baiano e ne andava fiero e a noi piaceva molto la sua lingua umbra, Ode a lu paese mia, la sua casa trapiantata in quella stretta valle. Era buffo quando ci parlava di uno strano commercio di tartufi, salumi e di altri prodotti della Val Nerina da esportare in Valtellina e di prodotti della Valtellina da vendere in Umbria, non vedemmo nemmeno un tartufo circolare per la valle, ma andava bene così, ci bastava il sapore antico della sua compagnia, eravamo così affiatati da pensare che avessimo giocato insieme fin da bambini. Forse per i suoi occhi vispi e per il suo essere affettuoso in un modo tutto suo. Forse per il suo aspetto un po’ trasandato e bohémien, capelli ricci, barba incolta, bel sorriso. Non giocava a far l’artista, era proprio così, un uomo semplice, strano ed elegante, come la gente del suo paese. Mi regalò Al di là del sentiero dei pioppi, un suo libro. Scriveva poesie, in dialetto spoletino o istantanee dedicate ad amici, scriveva commedie che faceva recitare ai suoi alunni in costume e con le scene ricostruite in modo realistico che coinvolgevano tutti e avevano un grande successo. Amava gli autori classici, mentre io tendevo di più per i contemporanei. Forse per le sue uscite scenografiche memorabili. Una sera organizzammo una cena per festeggiare il superamento del concorso. Io risultai il concorrente meglio qualificato, se ci ripenso mi ci scappa un risolino, io primo, uno dei miei pochi momenti di gloria. Al brindisi finale Stelvio mi mise in mano una candela valtellinese, prese il cartone del dolce, si mise in ginocchio dietro di me e me lo teneva sopra la testa come una corona, e mi disse: “Da questo momento lui non parla, pontifica”. Il re della compagnia era lui e lo sapeva bene, ma non entrava nella parte, proprio per questo mi piaceva. Forse per il suo modo anarchico di vivere che aveva allora. Abitava da solo e veniva spesso a casa nostra. Restavamo a chiacchierare fino a tardi poi, quando ci prendeva sonno, lui diceva: “Io mi metto in questa cameretta dove voi tenete il vino (che portavamo in damigiana da Pisa perché in Valtellina il vino è una merce preziosa e ha un sapore di montagna un po’ diverso dal vino toscano), mi sdraio, dormo un po’ e domattina presto”, che per lui erano le cinque, “me ne vado”. Non accendevamo neppure il riscaldamento in quella stanza, ma a Stelvio non importava, dormiva vestito. La mattina quando ci alzavamo trovavamo la stanza vuota. Stelvio era già in giro per la valle per inseguire la sua ispirazione, le sue idee stra-vaganti. Era sposato e aveva già una figlia. Sua moglie, Anna Maria, insieme alla piccola Talia, qualche volta venivano a trovarlo ed era una festa per tutti noi transfughi valtellinesi. Forse perché tutti e due che, con Massimo, eravamo un trio, pensavamo che non ci fosse bisogno di una solenne dichiarazione per essere amici. Un giorno, prima delle vacanze di Natale, gli detti un passaggio da Morbegno a Pisa da dove poi avrebbe proseguito per l’Umbria in treno. Allora non c’era la superstrada e facemmo il lungo lago pieno di curve, sì forse fu durante quel viaggio che capimmo di essere diventati amici, sbagliammo anche l’uscita del casello dell’autostrada e ci trovammo a La Spezia, ma fu l’occasione per un’altra risata, e questa fu la dichiarazione allegra di un’amicizia. Se non avessi avuto un amico come Stelvio Sbardella mi sarei sentito più solo. Come quella sera del dicembre 2017 in cui arrivai con Susanna a Foligno e, come in genere facevo quando passavo per l’Umbria, pensai di telefonargli per combinare un appuntamento, trovai un articolo su internet che lì per lì mi pareva un saluto al neo pensionato, invece scoprii che Stelvio non c’era più. Per allontanare lo spaesamento di sentirmi senza di lui nella sua terra, mi immaginai che si era addormentato su un letticciolo di una cameretta dove c’era una damigiana di vino pisano e sognava quegli anni in Valtellina. Poi mi venne voglia di tartufo, perché Stelvio ce l’ha insegnato nun se campa senza avé magnato. La mattina dopo con Susanna, invece di andare verso le Marche e raggiungere il Conero, decidemmo di tornare indietro e andare da Giuseppe e Marilena, gli altri amici incontrarti in Valtellina che vivevano a Todi che non vedevamo da molto tempo. Fu un incontro molto bello e vivo e insieme salutammo l’amico Stelvio. Poi riprendemmo il nostro viaggio facendo tappa a Recanati.

Mio padre, Gian Piero Della Croce, è morto il 14 Dicembre 1986. È strano che ricordi il suo funerale come una giornata meteorologicamente e umanamente splendida a suo modo: aria nitida piena di vento, sole e pioggia che si alternavano; piena gente, di giovani amici e amiche di mia sorella Cristiana, che a quel tempo aveva da poco compiuto diciassette anni.  Ricordando Stelvio Sbardella ho ritrovato questa poesia a lui dedicata in risposta penso a due suoi messaggi che mi riportano a quei giorni. Curioso di rileggere cosa Stelvio allora mi scrisse, tra le cose di mia madre ho ritrovato una scatola di cartone con scritto TELEGRAMMI G. PIERO. C’era un telegramma di Stelvio e una busta con mittente Sbardella Stelvio  V.le Firenze 172 06034 Foligno (PG), ma era vuota. Anche in questo piccolissimo e insignificante caso il vuoto non è il nulla.

Scritta di getto da Stelvio Sbardella sul retro di una fotografia in occasione del mio compleanno (in alto in rosso si leggono luogo e data dello scatto: Colico 21/9/83) sul tavolo di cucina di Mariella Ruscica a Morbegno.

Nella notturna ora
che trasale
dal genetliaco d’amico,
di più dispersi cuori
uno facemmo
in quest’ora
che sa di sapori avari
di primavera.Stelvio
15/3/1984
Dallo scrigno della memoria di Mariella“Prego, accomodatevi”.

Era il primo Aprile del 1984. Avevo invitati i miei amici (e colleghi) al pranzo domenicale in cui la “portata” principale (e non ricordo se l’unica) erano i pizzoccheri valtellinesi.

“Abbiamo portato un vino: indovina quale?”, dice Francesco.

“Non dovevate, ma non so proprio che vino abbiate scelto. Forse un Sassella o un Inferno”.

“No, non ci sei!”, incalza Francesco.

“E allora non lo so proprio!”

Ovidio invita Francesco a non distrarmi perché non fosse compromessa la preparazione del prelibato piatto valtellinese.

Stelvio illuminava i due metri quadri della mia cucina col suo largo e solare sorriso.

“Abbiamo scelto un Porto, e sai perché? Perché questa casa è un porto di mare!”

Al caffè che chiudeva il lauto pranzo Stelvio tirò fuori da una tasca un foglietto con dei versi.

Originale l’idea di dire grazie, sincere le parole che rivolgeva a una collega che da mesi rompeva le scatole con la sua fissa di voler tornare al più presto in Sicilia.

L’immagine delle “pianure arse di Siracusa” punteggiate di piedi di fichidindia e cactus, coglieva l’urgenza che mi bruciava dentro, l’urgenza di tornare nella mia terra, nella terra “d’uomini lontani, da millenni in guerra”.

Stelvio mi incoraggiava a resistere in Valtellina (“i padri han vinto, Mariella”) perché quel mio tempo di emigrata “non è stimmate, è grido e forza”.


Custodisco il “foglietto” autografo tra le foto che ritraggono l’allegra brigata a festeggiare goliardicamente compleanni, superamento di concorsi o a trascorrere allegramente qualche sabato sera.

(Facile indovinare i commenti dei nostri alunni, se ci avessero visti).

Gelosamente custodita nello scrigno della memoria è l’emozione che provai allora, emozione che rivivo ogni volta che riprendo in mano quel “foglietto”, ormai ingiallito dal tempo.

Grazie, Stelvio

Mariella Ruscica

Rosolini, 23 novembre 2020

odellac novembre 2020