Autoritratto

Grazie a Bob Evangelisti sono stato costretto ad affrontare un tema fotografico che di mia iniziativa mai e poi mai avrei sperimentato. Eppure, una volta superato il primo momento di disagio, mi sono trovato coinvolto in una ricerca divertente e interessante che si è conclusa con una mostra “Io mi vedo così. Per un nuovo linguaggio della fotogenicità” .

Affrontare da un punto di vista fotografico l’autoritratto rimanda senza dubbio alla capacità di poter esprimere qualcosa di significativo di sé attraverso la fotografia, una sorta di esplorazione della propria identità, di come essa viene percepita dal soggetto stesso o di come vuole sia percepita dagli altri. Il fotografo decide di ritrarsi o quando pensa di avere o qualcosa da comunicare di sé o quando decide che è opportuno mostrarsi agli altri in un certo modo, oppure quando qualcuno lo obbliga a comunicare qualcosa di sé, come nel mio caso. Ma anche in questa ultima situazione non si può fare a meno di riflettere su come mostrarsi, su che cosa far vedere di sé.

L’autoritratto è un atto che può mettere il soggetto di fronte ad una situazione di rischio, quella del rispecchiamento narcisistico, della contemplazione solipsistica dell’io, una situazione che ha come esito, nella vicenda mitologica, la morte di Narciso, di colui che si rispecchia e si innamora della propria immagine. Il filosofo Pietro Barcellona afferma che:

“L’uomo di oggi è vittima di una malattia dell’anima, il ritorno emotivo alla fase in cui l’unica dimensione di Narciso è quella dell’autocontemplazione nello specchio che porta alla morte. In questa prospettiva scompare persino l’oggetto del desiderio e ci ritroviamo in una forma di autoipnosi, in una patologia collettiva. L’individuo cerca di farsi restituire la propria immagine come l’ha voluta costruire in assenza di relazionalità.”

L’autoritratto fotografico può essere un veicolo attraverso il quale tale patologia si diffonde. La macchina fotografica può prendere il posto dello specchio d’acqua e condannare il fotografo ad una sorte contrassegnata dalla pazzia che in qualche modo Calvino aveva già previsto nel suo racconto “Avventura di un fotografo”. La mania del selfie oggi è forse un sintomo di una patologia sociale causata dall’indebolirsi della vita affettiva e relazionale basata sulla difficoltà di accettare l’altro come presenza di un soggetto irriducibile a noi, come differenza non assimilabile.

È possibile evitare il rischio e fare in modo che il proprio rispecchiamento nell’immagine fotografica entri nel gioco delle relazioni interpersonali indispensabili per non cadere nella trappola del solipsismo?

La macchina fotografica se usata come una penna, come strumento per scrivere di sé, a differenza dello specchio d’acqua di Narciso che riflette un’immagine momentanea visibile solo dal soggetto che vi si riflette, restituisce un oggetto duraturo che acquisisce significato grazie all’uso che ne viene fatto. La fotografia fatta come selfie è un prodotto evanescente come l’immagine dello specchio. L’inchiostro o i pixel attraverso i quali prende vita l’oggetto fotografato al termine di un atto di riflessione costituiscono un elemento che può entrare in un gioco di relazioni, in una forma di scambio di relazioni che va oltre il solipsistico sguardo del fotografo su se stesso. Le scelte ponderate del soggetto fotografo determinano la natura dell’oggetto fotografato e quindi dell’immagine che il soggetto propone all’altro sotto forma di oggetto che si propone ad un altro soggetto. La fotografia è uno strumento che ha come fine la comunicazione, lo scambio, e tale aspetto, tale intenzionalità, rimane presente anche quando si scattano autoritratti purché non siano il prodotto di un atteggiamento narcisistico in cui il soggetto comunica solo per sé e con sé.

Il punto di partenza, una volta escluso il pericolo del solipsismo, per una riflessione sulla natura dell’autoritratto non può che essere una analisi su come è stato costruito il soggetto della fotografia: l’io. Il fotografo è in qualche modo anche regista di tale immagine. La pensa, la progetta e poi la realizza. E tale lavoro è il contenuto specifico dell’autoritratto, l’oggetto che deve esser analizzato. In tale prospettiva viene riproposta la questione della fotografia come un’operazione legata alla capacità di cogliere l’attimo decisivo. Ma che cosa è l’attimo decisivo? Ed è davvero esso l’elemento fondamentale della fotografia?

Quando cerco di fissare questo concetto in una definizione ho l’impressione di trovarmi di fronte a qualcosa di simile al concetto di tempo per Sant’Agostino. So cosa è quando nessuno me lo chiede, ma quando qualcuno mi chiede di definirlo, allora non trovo le parole. Nel nostro caso ho notato che il più delle volte, per cercare di spiegare questo concetto, si procede per atti ostensivi, indicando particolari della foto che la rendono significativa, particolari colti e fissati nel momento in cui fluiscono nello scorrere del tempo, particolari irripetibili e spesso imprevedibili. Si dice, per connotare come decisivo quell’istante, che senza quel particolare la foto sarebbe banale. E il particolare evidentemente è stato colto in un istante irripetibile che diventa perciò decisivo.

Il fotografo in questo caso si dovrebbe comportare come un cacciatore, armato di pazienza, di spirito d’osservazione e di fortuna. La sua esperienza può essergli utile per capire che forse qualcosa potrebbe accadere e che potrà catturarla con il proprio apparecchio fotografico, ma non potrà andare oltre. Non sa di preciso che cosa accadrà, che cosa apparirà nella sua foto.

Allora più ci penso e più mi convinco che l’istante decisivo è uno strumento per valutare e per scegliere foto piuttosto che per scattarle. Solo guardando successivamente le foto, queste vengono individuate (e scelte) come significative e l’istante che esse hanno congelato diventa decisivo.

Nel lavoro sull’autoritratto è utile il concetto di istante decisivo?

Prima di rispondere forse è utile riprendere la riflessione iniziale su che tipo di foto debbono essere scattate per realizzare autoritratti. Penso ad un altro concetto come elemento da utilizzare per la produzione di autoritratti. Quello della previsualizzazione di Ansel Adams, cioè della foto realizzata cercando di pre-vedere il risultato dello scatto e di fissare sulla foto l’immagine che nella nostra mente si è formata della possibile fotografia di un determinato oggetto o di un certo luogo che i nostri occhi stanno vedendo. Il lavoro del fotografo in questo caso mi sembra molto diverso da quello basato sulla ricerca dell’istante decisivo. Occorre un lavoro più di riflessione visiva che di caccia all’imprevedibile previsto. Quello che ne risulta è un lavoro lento, pacato, di sollecitazione di immagini mentali legate alla realtà che stiamo vedendo, alla sua “fotogenicità” sulla base dell’esperienza che il fotografo ha dei possibili risultati fotografici.

Mi vengono in mente due DVD che ho visto di recente, uno su Berengo Gardin e uno su Basilco (o forse erano immagini dello stesso DVD, non ricordo). Il diverso modo di lavorare di questi due fotografi (e la loro attrezzatura) rispecchia le due modalità di fotografare che ho descritto. A chi deve ispirarsi il fotografo che lavora sull’autoritratto? A Berengo Gardin, piccolo, agile che gira con una piccola macchina in cerca di istanti decisivi da congelare o a Basilico che, come un  pittore di paesaggi,  si porta sulle spalle la sua pesante macchina già pronta sul cavalletto, insieme a un grande telo nero per coprire la macchina e il fotografo nel momento delle scatto. Il primo si aggira per le strade come un piccolo animale da preda, osserva curioso, scatta e fugge portandosi dietro la sua vittima. Il secondo si ferma, prova, si sposta e infine scatta solo dopo aver messo in piedi più volte il suo rituale. Ciò che verrà fuori avrà un che di ieratico.

Nella prospettiva legata alla pre – visualizzazione si colloca secondo me anche la foto pensata, costruita nel senso di una fotografia in cui l’oggetto fotografato è costruito mediante una qualche forma di messa in posa, di regia. In tale modo di fotografare non c’è un oggetto che si presenta così come è nella realtà che ci circonda e in cui siamo immersi. La fotografia riprende in questo caso non la realtà ma, attraverso la realtà, la disposizione degli oggetti nella realtà voluta dal fotografo, le nostre immagini mentali, immagini che non sono più pre-visualizzazioni del risultato, ma costruzioni dell’oggetto stesso che verrà fotografato e che non era già lì pronto nella realtà. Tale procedimento corrisponde a quello che Alfonso Iacono chiama costruzione di mondi intermedi, costruzione di un mondo prodotto dall’immaginazione senza però perdere di vista con la coda dell’occhio la realtà. E una fotografia senza dubbio più concettuale, che esclude completamente gli istanti decisivi ma anche più attenta alla ricerca del senso del possibile, dei molteplici punti di vista attraverso i quali gettare sguardi sulla realtà.

Il fotografo che mi viene in mente pensando a quest’ultima procedura è Mulas, il Mulas che detestava l’istante decisivo. Per Mulas il fotografo non è un il cacciatore che registra passivamente gli eventi che incontra o che cerca. Non è colui che cerca di cogliere l’”istante decisivo” per eccellenza.  Il fotografo è attivo sulla scena, interagisce con essa, si fa coinvolgere:

“Come i bambini che non sanno ancora parlare, e quando cercano o vogliono una cosa si esprimono avvicinandosi ad essa, toccandola, o fiutandola, o indicandola e con mille atteggiamenti diversi, così il fotografo quando lavora, gira intorno all’oggetto del suo discorso, lo esamina, lo considera, lo tocca, lo sposta, ne muta la collocazione e la luce; e quando infine decide di impossessarsene fotografandolo, non avrà espresso che una parte del suo pensiero… Ciò che veramente importa non è tanto l’attimo privilegiato, quanto individuare una propria realtà, dopo di ché tutti gli attimi più o meno si equivalgono. Circoscritto il proprio territorio, ancora una volta potremo assistere al miracolo delle “immagini che creano sé stesse”, perché in quel punto il fotografo deve trasformarsi in operatore, cioè ridurre il suo intervento alle operazioni strumentali. Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quella di registrarla nella sua totalità”. [Ugo Mulas, La Fotografia].

Mulas pensa che sia fondamentale utilizzare tutti i momenti e gli strumenti del processo fotografico con la possibilità di intervenire sull’immagine, apportare correzioni, manipolarla.

“All’inizio, la cosa più eccitante era il laboratorio; intravedevo la possibilità di salvare una fotografia mal riuscita con un’operazione di camera oscura, cioè usando una particolare carta, un certo taglio. Poi mi sono reso conto che il laboratorio è fondamentale, perché l’immagine che realizzi con l’apparecchio non è completa se non è stampata da te, o secondo le tue indicazioni molto precise, ma che il laboratorio non può essere una panacea per i mali della ripresa, non è fatto per salvare dei negativi sbagliati ma soltanto per rendere un buon negativo in tutto il suo valore “. [Ugo Mulas, La Fotografia].

Un altro elemento legato all’autoritratto fotografico che mi sembra opportuno affrontare è la questione della foto come racconto. Per accettare tale definizione però bisogna prima sciogliere una sorta di groviglio legato a quello che a me sembra un paradosso.

Il meccanismo del racconto è un meccanismo di costruzione di senso che si basa soprattutto sull’organizzazione temporale degli eventi (la successione, l’anticipazione, il flash back ecc.). La fotografia invece mi sembra sia basata sull’annullamento o meglio sul congelamento del tempo, sulla capacità di congelare l’attimo in cui un certo evento accade. La categoria fondamentale della fotografia mi sembra essere quindi quella dello spazio (delimitazione dell’inquadratura, organizzazione degli elementi sul piano dei rapporti spaziali, profondità di campo, prospettiva) e non quella del tempo. Il tempo nella fotografia costituisce uno strumento tecnico che consente di ottenere effetti significativi, ma non la struttura portante. Mormorio nel suo libro Catturare il tempo rafforza questa idea. Lo sviluppo della fotografia è legato allo sviluppo della capacità tecnologica di ridurre la durata dell’esposizione, di congelare istanti sempre più brevi. Possiamo chiederci quindi che cosa vuol dire che la fotografia racconta. Io credo che tale affermazione rimandi ad una metafora che ha al suo centro la ricerca di senso mediante la capacità di evocare più che di narrare. La fotografia racconta non nel senso della costruzione di significato mediante la successione temporale (cosa che accade eventualmente nella serie di fotografie, più difficilmente nella singola foto), ma nella costruzione di significato mediante l’associazione di idee evocate, di sensazioni, conoscenze, ricordi, emozioni richiamate. Se è così il compito del lettore di fotografie è notevolmente più complesso di quello del lettore di racconti, un compito che non si esaurisce mai, purché la foto sia significativa o, per usare la terminologia di Eco, “opera aperta”. In sostanza si mette in luce con tale affermazione l’analogia del fine e non del mezzo del raccontare. Costruire senso, dare senso alle cose lasciando al lettore il compito di individuare gran parte dei legami tra esse è ciò che accade, è questo che mi sembra abbiano in comune il raccontare e il fotografare.

Il senso della fotografia quindi è legato soprattutto alla capacità di evocare (stati d’animo, sentimenti, sensazioni, idee, ricordi) ed è all’interno di questa capacità evocativa che può essere recuperata la funzione narrativa. La fotografia evoca storie, ma sempre attraverso la dimensione spaziale, anzi attraverso la rappresentazione bidimensionale dello spazio, rappresentazione che rimanda alla necessità di un linguaggio, di un’attività interpretativa, di una lettura mediata degli indizi presenti nella foto, lettura che può avvenire solo mediante il richiamo al corpus culturale presente in ciascun lettore di fotografie, alla sua enciclopedia personale. In tal senso non può esistere una lettura vera della fotografia, ma solo una possibile lettura che può essere oggetto di negoziazione tra più lettori.

Nell’autoritratto la dimensione del raccontare però è più facile da realizzare mediante fotografie come quelle a cui pensa Mulas, (costruzione dell’oggetto, messa in posa). L’autoritratto richiede un minimo di regia, di riflessione che precede lo scatto, anche solo per l’aspetto tecnico, l’uso di strumenti per poter scattare a distanza. Questa natura dell’autoritratto lo rende oggetto creato che può proporsi come oggetto di riflessione all’interno di una rete di sguardi che i lettori proiettano sull’oggetto e quindi sul soggetto che si è fotografato. L’isolamento di Narciso viene così superato e l’immagine di sé può trasformarsi da strumento di morte in strumento di scambio, di reciproca riflessione sul sé e sulla propria identità, sul proprio essere nel mondo, essere che non è mai solo un porsi o un proporsi ma sempre un incontrarsi in un gioco di negoziazioni, di mediazioni, di rispecchiamenti reciproci.

Un altro aspetto che deve essere tenuto in considerazione è il ruolo della fotografia come medium. La fotografia non è un medium neutrale nel senso che non funziona come semplice mezzo di trasporto di idee che rimangono integre nel loro involucro durante il viaggio. La fotografia è anche un fine. L’autoritratto fotografico è anche ricerca di soluzioni visive per problemi che non riguardano solo l’identità ma la specifica natura dell’immagine fotografica. L’autoritratto è anche ricerca interna al linguaggio fotografico e molte soluzioni possono riguardare prevalentemente tale aspetto. Problemi di esposizione, di inquadratura che non sono solo aspetti tecnici, ma sperimentazioni linguistiche attraverso le quali riuscire ad esprimersi, a comunicare a mostrare qualche aspetto di sé. Il soggetto è dato ma non il come tale soggetto può mostrarsi attraverso la fotografia. L’immagine del volto non è sufficiente perché essa può essere semplicemente una sorta di foto tessera. Come posso utilizzare quel volto per esprimere qualcosa di più dell’identità oggettiva che traspare dalle foto pronte per essere messe sulla carta di identità? Angolature particolari, gioco di luci ed ombre, presenza di oggetti, inserimento in particolari contesti, uso di riferimenti senza somiglianza e così via.

Nelle foto che ho realizzato (e queste riflessioni sono successive alle foto, autobiografie a posteriori, come le chiama Tabucchi, simili all’hegeliana nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo, cioè quando la realtà ha già prodotto i suoi effetti) c’è forse l’insieme di tali tentativi.

Alcune foto sono veri e propri autoritratti. In questo caso difficilmente il criterio guida è stato quello dell’istante decisivo. La foto è stata progettata, pensata anche perché il meccanismo tecnologico da utilizzare, l’autoscatto, richiede tale procedura. L’io si rivela direttamente, è presente nella foto, anche se dovrà essere interpretata la relazione tra altri elementi della foto e l’intenzione del soggetto – autore dello scatto.

Altre foto possono essere interpretate come metafore realizzate attraverso la rappresentazione di oggetti, persone, situazioni che hanno per me una certa importanza (l’io si rivela attraverso essi). Vi è quindi un riferimento senza somiglianza, una richiesta al lettore di cooperare per risalire al significato. Ma in tal caso va costruito una sorta di meccanismo narrativo o almeno associativo tra l’io e la cosa o la persona rappresentata, un meccanismo associativo che riveli il tipo di legame e la sua esistenza, altrimenti il lettore può perdersi.

Altre foto ancora parlano dell’io attraverso la sua ombra, e in questi casi l’attimo decisivo può essere lo strumento più importante. Credo infatti che non sia necessario schierarsi con Cartier Bresson o con Mulas. Credo sia più importante assumere un atteggiamento eclettico che porti oltre le dispute che, quando divengono dicotomiche, si trasformano in ideologiche e quindi impermeabili alla riflessione.  Al fotografo è richiesta una padronanza degli strumenti affinché raggiunga il massimo delle capacità espressive riferite a un determinato soggetto collocato in uno specifico contesto. Quasi tutte le foto in fondo sono una ricerca interna al linguaggio fotografico. L’io, inteso come soggetto della fotografia, forse traspare a tratti, si insinua tra gli interstizi che le immagini lasciano aperti, ma non è detto che sia il protagonista.

Un’ultima questione riguarda quindi la verità di ciò che un autoritratto comunica. Non è forse un caso che uno dei primi autoritratti sia anche uno dei primi grandi falsi fotografici. All’autoritratto qui rappresentato Bayard, l’autore della foto, affiancò la seguente didascalia:

«Questo che vedete è il cadavere di M. Bayard, inventore del procedimento che avete appena conosciuto. Per quel che so, questo infaticabile ricercatore è stato occupato per circa tre anni con la sua scoperta. Il governo, che è stato anche troppo per il signor Daguerre, ha detto di non poter far nulla per il signor Bayard, che si è gettato in acqua per la disperazione. Oh! umana incostanza…! È stato all’obitorio per diversi giorni, e nessuno è venuto a riconoscerlo o a reclamarlo. Signore e signori, passate avanti, per non offendervi l’olfatto, avrete infatti notato che il viso e le mani di questo signore cominciano a decomporsi.»

È un falso ma un falso che comunica una verità, lo stato d’animo di Bayard, la protesta del fotografo che si sente defraudato. È un falso efficace nel senso dell’illusione e non dell’inganno. Non è stato costruito per ingannare, per far credere che quello che è raffigurato corrisponde ad una porzione di realtà così come è ma per potenziare la comunicazione. L’illusione in questo caso è infatti il falso associato alla consapevolezza della falsità e finalizzato a coinvolgere il lettore e lo spettatore.

L’autoritratto può essere in questo senso un falso, una fonte di conoscenza che attraverso l’illusione prodotta mediante l’uso del linguaggio fotografico potenzia i canali percettivi e la dimensione empatica, rafforza la conoscenza del soggetto. L’io, l’identità non si rivela direttamente, non narra di sé in modo esplicito attraverso la foto, ma piuttosto la foto è una traccia lasciata da un soggetto che grazie alla collaborazione di un lettore, che può essere lui stesso, riesce ad narrare qualcosa di sé, qualcosa di non concluso, di indefinito, di evocativo. In fondo tale è anche l’identità, una realtà immaginaria costruita solo grazie al rapporto con gli altri e dalle mille facce che continuamente si sostituiscono l’una all’altra sulla base del contesto e dell’istante in cui essa si mostra.

gennaio 2012 massimocec