Ho un mio stile personale?

Fotografia Massimo Ceccanti

È possibile per chi fa fotografia parlare di stile personale? La fotografia è un processo meccanico che si basa sulla possibilità di registrare su una superficie sensibile  attraverso una macchina che ha al suo centro un foro minuscolo la luce che proviene dal mondo esterno. Questo processo sembra escludere in gran parte l’abilità manuale dell’operatore. È la macchina fotografica che registra e registra tutto quello che vede, tutto quello che cade nel campo ottico dell’obiettivo. Certo chi fotografa delimita questo campo, sceglie alcuni aspetti mediante le operazioni che macchina permette di fare (scelta della focale, scelta dei tempi, dell’apertura del diaframma eccetera), ma secondo alcuni il ruolo della macchina è prevalente rispetto a quello del soggetto che la usa. Molti autori, a partire da Walter Benjamin, hanno parlato di inconscio non solo nel senso di un agire che non è legato alla consapevolezza dell’azione del soggetto, ma anche di un inconscio legato allo strumento, un inconscio ottico. L’inconscio come concetto di natura psicologica rimanda alla presenza di azioni, pensieri, immagini mentali prodotti da aspetti interni della psiche,  da elementi  che sfuggono al controllo della coscienza, che agiscono autonomamente rispetto al soggetto che mette in atto determinati comportamenti o elabora certi pensieri o immagini mentali.  L’inconscio ottico di cui parla Benjamin va oltre però questa idea, è un inconscio legato non alla psiche ma alla natura di oggetto che vede attraverso l’obiettivo. Benjamin dice che:

“La natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto dello spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente. Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, dell’andatura della gente, sia pure all’ingrosso, di certo non sa nulla del loro contegno nel frammento di secondo in cui si allunga il passo. La fotografia, con i suoi mezzi ausiliari: con il rallentatore, con gli ingrandimenti,  glielo mostra. Soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo.” (W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, 1931, Einaudi).

La macchina fotografica quindi è lo strumento che rivela questa parte nascosta del soggetto come oggetto del mondo che sfugge allo sguardo. Recentemente è stato ristampato un libro di Franco Vaccari “Fotografia e inconscio tecnologico” in cui Vaccari  introduce un ulteriore elemento, l’idea dell’inconscio tecnologico e dice che:

“Non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui”.

Secondo Vaccari quindi la macchina fotografica è dotata di un inconscio tecnologico, cioè di una capacità di agire autonomamente; la macchina non è quindi il prodotto dell’estensione delle facoltà umane. La fotografia è il prodotto di una macchina che agisce sulla base di una propria autonoma capacità che sottrae al fotografo il ruolo di protagonista. I due autentici elementi che entrano in gioco sono la macchina e il soggetto fotografato che interagisce con essa. L’operatore, il fotografo  viene messo da parte.

Mi è  molto difficile accettare le conseguenze delle idee di Vaccari. L’idea di inconscio ottico di Benjamin per me è un’idea feconda in quanto apre il discorso sul non prevedibile, sul ruolo autonomo della realtà nella fotografia nonostante che chi fotografa compia scelte che si rivelano fondamentali.  La fotografia non è pienamente gestibile dal fotografo perché essa ha bisogno di un soggetto e tale soggetto non si lascia afferrare nella sua interezza dallo sguardo umano che precede lo scatto. Il soggetto fotografato non è pienamente riducibile al soggetto che fotografa e questa irriducibilità è una risorsa per la fotografia. Le tracce che il soggetto lascia nella fotografia possono essere da un lato inferiori a quelle che il fotografo si aspettava, che pensava di poter catturare, e dall’altro maggiori, non viste e non previste dal fotografo. La fotografia rimane così in parte imprevedibile e aperta al senso del possibile. Roland Barthes associa a questo aspetto della fotografia uno dei due elementi fondamentali della sua teoria, quello del punctum, del particolare che colpisce chi guarda la foto e che non è il prodotto delle scelte dell’autore; il punctum è il particolare in grado di mettere in moto la sfera emotiva, la sfera sensibile del soggetto che guarda senza che il fotografo abbia in qualche modo previsto tale possibilità. Ma in fondo l’idea di Barthes riguarda il rapporto tra fotografia e lettore. Vaccari sposta invece l’accento in modo deciso sulla macchina, sull’autonomia tecnologica della macchina che è vista come  dotata di facoltà che vanno ben oltre quelle della visione umana, anche della visione determinata in qualche modo dell’inconscio ottico quando interviene  per mediare il nostro contatto con il mondo esterno, come forse si può intravedere nella teoria del punctum di Barthes. La realtà rimane intrappolata nella fotografia non perché qualcuno l’ha vista e ha scelto di rappresentarla ma perché la macchina  rispondendo alla sua struttura inconsapevole l’ha registrata in quel modo. Certo le idee di Vaccari danno un ampio spazio alla fotografia come traccia, alla sua natura di indice rispetto a quelle di rappresentazione. Per Vaccari il contenuto della fotografia è una sorta di frammento d’esperienza, come dice Renato Barilli, forse un’apertura nei confronti del caso, dell’imprevisto, come elemento dominante dell’esperienza umana, ma non riesco a pensare alla fotografia senza fotografo come ha invece realizzato anche praticamente Vaccari in alcune sue sperimentazioni, che mi incuriosiscono e mi attraggono come gioco finalizzato alla rottura che gli schemi ripetitivi, come provocazione consapevole e culturalmente motivata dalla necessità di scompigliare le carte per poter inventare nuovi giochi e nuove regole. Forse sta accadendo a me quello che è accaduto ai due pittori nel finale del racconto di Honoré de Balzac “Il capolavoro sconosciuto” che non sono riusciti a vedere nella tela del perfezionista Frenhofer, il pittore profeta dell’astrattismo e dell’informale, un quadro ma solo un ammasso di colori. Questo d’altra parte è il rischio che corre ogni avanguardia.

L’idea dell’inconscio pone notevoli problemi. Che cosa rimane allora dello stile del fotografo se  la fotografia è il risultato di un’azione inconsapevole da parte della macchina, del caso, dell’imprevedibile? Forse lo stile è proprio è dato dall’esistenza, dalla necessita di una scelta che viene prima dell’apparire della fotografia, la scelta di collocarsi di fronte alla realtà con un certo atteggiamento e di essere coerente con questa scelta fintanto che si sente come nostra. In fondo anche Vaccari ha uno stile nel momento in cui realizza i suoi progetti fotografici e le fotografie realizzate dalle sue macchine sono il prodotto di queste scelte. Non occorre porsi il problema della stile quindi perché esso è comunque presente nel momento in cui si fanno scelte. Per quel che mi riguarda non sono alla ricerca di uno stile. Sto semplicemente sperimentando e fotografando in modo eclettico e infantile quello che in un certo momento mi interessa. Vivo l’inconscio tecnologico, se si crede nella sua esistenza e nel suo ruolo, talvolta come una risorsa, qualche altra come un limite e come un ostacolo. Mi stupisco di alcune foto e penso che in realtà sia la macchina che ha agito autonomamente. Altre volte mi arrabbio per lo stesso motivo, perché la realtà non si piega alle mie richieste. Ma in fondo penso che la macchina sia prima di tutto un prolungamento delle capacità umane e mi riconosco nell’idea di inconscio ottico di Benjamin. Nel momento in cui si scatta una fotografia non ogni cosa è pienamente nelle nostre mani. La macchina fotografica più che un inconscio ha una sua identità e questa sì è un’identità tecnologica e con essa dobbiamo fare i conti per raggiungere i nostri scopi.

massimocec marzo 2012