Vernazza Monterosso

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Il sentiero che collega Vernazza a Monterosso è forse il più lungo e il più interessante di tutto il percorso delle Cinque terre. Vernazza e Monterosso sono due centri abitati completamente diversi. Vernazza è uno dei centri abitati come quelli descritti da Calvino, luoghi “in cui le case si riversano una sull’altra come le scaglie di una pigna” con “vie strette e sormontate da archivolti” attrezzati soprattutto per la difesa dalle incursioni “come pronti a respingere un assedio”, accessibili solo dal mare o attraverso sconnesse mulattiere e oggi diventato centro turistico, pieno di bar, negozietti pronti a vendere ogni tipo di oggetto che possa essere presentato come tipico o come ricordo, ristoranti, gelaterie. Vernazza occupa una specie di mezza luna un’estremità della quale si protende nel mare come un dito puntato verso il promontorio di Punta Mesco. Al mare si accede dalla piazzetta al centro del paese che si prolunga nello specchio d’acqua antistante chiuso dai monti da un lato e da un piccolo molo dall’altro. Monterosso è l’ultima delle Cinque Terre, una zona, come la descrive Maggiani in “Un contadino in mezzo al mare” dove “la falesia oramai si è spenta e i suoi detriti sparsi si sono colmati di buona terra. L’unica delle  Cinque Terre che è terra davvero e non solo sasso su sasso, scoglio e precipizio; il solo tra questi paesi dove le case hanno orti e addirittura giardini, e si piò abitare senza la ristrettezza claustrofobica di borghi costruiti per difendersi da tutto, e in primo luogo dalla risacca che riesce a consumare le ossa prima ancora dei muri che le ricoverano”. E i giardini spesso sono giardini di limoni, quei limoni di cui parla Montale nelle sue poesie. A causa di queste caratteristiche è anche la terra più soggetta all’occupazione da parte dei turisti che vedono nel mare il luogo per offrire i loro corpi in pasto ai raggi del sole.

Sul sentiero che collega Vernazza a Monterosso è possibile ritrovare qualche traccia del passato, della fatica dei contadini, oltre naturalmente agli stupendi scorci che però sanno troppo di cartolina. Ci sono resti di ponticelli in pietra, case isolate e non raggiunte da strade abitate, forse da turisti in cerca di spirito d’avventura, tracce di mulattiere, c’è il sole con la sua dirompente luce. Ma c’è anche qualcosa di non fotografabile che per me è importante, lo stare lì, accompagnato da una sensazione mia che non so descrivere “Un luogo non è mai solo “quel” luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati. Ci siamo arrivati il giorno giusto o il giorno sbagliato, a seconda, ma questo non è responsabilità del luogo, dipende da noi. Dipende da come leggiamo quel luogo, dalla nostra disponibilità ad accoglierlo dentro i nostri occhi e dentro la nostra anima, se siamo allegri o malinconici, euforici o disforici, giovani o vecchi, se ci sentiamo perfettamente bene o se abbiamo il mal di pancia. Dipende da chi siamo nel momento in cui arriviamo in quel luogo. Queste cose si imparano con il tempo, e soprattutto viaggiando. Ma molti anni fa, quando feci il mio primo viaggio alle Azzorre, non lo sapevo ancora. «Mi riconosci tu, aria, tu che conosci i luoghi che una volta erano miei?». E un verso di Rainer Maria Rilke, lo cito a memoria e non sono fedele alla lettera, ma il senso è questo. Qualcuno sta tornando in un luogo che conobbe in altri tempi e chiede all’ aria (lo spirito del luogo?) di essere riconosciuto, perché lui non riconosce più quel luogo. Non riconosce ciò che guardò un tempo o ciò che a quel tempo provava guardando: le sue emozioni, il se stesso di allora. Ogni luogo nel quale arriviamo in un viaggio è una sorta di radiografia di noi stessi. Spesso, ingenuamente, scattiamo anche delle fotografie, nell’ illusione di portare via qualcosa. Ma esse sono solo la pelle, pura apparenza: ciò che quel luogo provoca in noi nel guardarlo e viverlo non è fotografabile. Succede la stessa cosa con i sogni. A tutti noi è capitato di fare un sogno che ci ha provocato una forte emozione. Spinti dal desiderio di comunicare lo stesso sentimento che abbiamo provato, la mattina dopo raccontiamo il nostro sogno a qualcuno, e con meraviglia ci accorgiamo che in fondo la storia di quel sogno era abbastanza banale, era un sogno come un altro: così, a raccontarlo, non comunica nessuna emozione, né in chi vi ascolta né a voi stessi che lo raccontate.” (Antonio Tabucchi Viaggi e altri viaggi)

Ma alla fine c’è il rientro in un mondo fatto su misura per dimenticare, per stravolgere il significato delle cose, per far uscire denaro anche dall’aria che forse personaggi come Montale hanno respirato in questi luoghi. E allora mi incuriosisce un’altra prospettiva, opposta alla mia vissuta nelle ore del giorno in piena luce, una prospettiva che vede gli stessi luoghi da un punto di vista diverso, legato al buio, al grigio del maltempo, all’essere in un luogo chiuso, la prospettiva della “sera fumida su la costa, dilavata dal trascorrere iroso delle spume” dove “il punto atono del faro che baluginava sulla roccia del Tino, cerula, tre volte si dilatò e si spense in un altro oro” e dove “Si schiodava dall’alto impetuoso un nembo d’aria diaccia, diluviava sul nido di Corniglia rugginoso.” E in questa atmosfera inquietante, resa ancor più inquietante, oltre che dal buio, dalla presenza di un orribile insetto, scorgere per un attimo luci amiche:

“Era un insetto orribile dal becco

aguzzo, gli occhi avvolti come d’una

rossastra fotosfera, al dosso il teschio

umano; e attorno dava se una mano

tentava di ghermirlo un acre sibilo

che agghiacciava.

 

Batté più volte sordo sulla tavola,

sui vetri ribatté chiusi dal vento,

e da se ritrovò la via dell’aria,

si perse nelle tenebre. Dal porto

di Vernazza le luci erano a tratti

scancellate dal crescere dell’onde

invisibili al fondo della notte.”

Eugenio Montale da Le occasioni

E con Luigi Ghirri è possibile dire che “alla fine che quello che ci è dato conoscere, raccontare, rappresentare non è che una piccola smagliatura sulla superficie delle cose, dei paesaggi che abitiamo e viviamo”. (Da “Niente di antico sotto il sole” in Paesaggio italiano) e questa smagliatura è mobile, lascia intravedere aspetti diversi che mutano in sé ma anche perché cambia lo sguardo che dirigiamo su quelle smagliature.