Genova

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Si parla di Genova come di una città verticale fatta di vicoli, ostile dal punto di vista fotografico per la sua verticalità e per la ristrettezza degli spazi. È una città che conosco poco e forse quel poco soprattutto grazie al filtro delle canzoni di De André. Oggi si dice che è una città in profonda trasformazione anche a causa dell’arrivo di una grande quantità di immigrati che sta cambiando profondamente il suo tessuto sociale, e dell’urbanizzazione selvaggia, una città duplice con un volto esterno e un’anima interna, nascosta che non si rivela. Ho però la sensazione che questi fenomeni e questi luoghi comuni valgano per tutte le città. Sono andato perciò a cercare altri fonti per cercare di capire la città e per fotografarla e le ho trovate in due libri fotografici: Maurizio Maggiani “Mi sono perso a Genova” e Bruno Morchio “La Genova di Bacci Pagano”.

Il primo libro è una descrizione basata soprattutto sul rapporto sentimentale con questa città, un rapporto costruito con gli anni a partire dall’infanzia. L’obiettivo fotografico è guidato dalla memoria dell’autore che crea un’immagine sospesa tra la realtà e il sogno, una memoria che esclude i monumenti, i luoghi noti, ma che percorre strade molto personali, di difficile uso per uno straniero quale sono io.

Ho provato allora a farmi guidare nella scoperta di Genova dalle fotografie contenute nel libro di Bruno Morchio, La Genova di Bacci Pagano, con la speranza di trovare i caruggi e le creuze di cui si parla nel libro come soggetti che si lasciano fotografare. Non è stato così. Ho verificato che è estremamente difficile fotografare se si cerca di scoprirne l’anima, se con anima si intende l’intrico di vicoli e case che occupano il suo centro perché è una città buia e con spazi ristretti, piena di vicoli angusti, di piazzette piccole e circondata da altissimi palazzi.

Paola Pettinotti nel suo saggio “La Genova di Bacci Pagano dai caruggi alle creuze” dice che Genova è una città muta, che non ha trovato voci che la rappresentassero. Morchio è lo scrittore che ha rotto questo silenzio con i suoi gialli che hanno come protagonista Bacci Pagano. Bacci Pagano quindi è l’investigatore nato dalla penna di Bruno Morchio, il creatore di romanzi gialli – noir caratterizzati da un forte legame tra protagonista e ambiente, appunto Bacci Pagano e Genova, il Cammilleri ligure, anzi genovese.

Ho letto in questo testo che i caruggi sono vicoli stretti, oscuri, tortuosi, metafore del labirinto e quindi del perdersi. Mi sono ritrovato nella descrizione che quasi due secoli fa ne ha fatto Mark Twain “Uno cammina lungo queste cupe fenditure, solleva lo sguardo ed ecco che, lassù, in alto sopra la testa, dove le sommità di quegli altissimi edifici posti su entrambi i lati del vicolo sembrano inclinarsi fin quasi a toccarsi, ecco che lassù, dicevo, intravede il cielo che sembra solo un nastro di luce. Si ha l’impressione d’esser finiti sul fondo di chissà quale tremendo abisso, con il mondo intero che incombe , altissimo, intorno a voi. Ci si aggira in un vicolo tortuoso, si svolta in un altro, in un altro ancora, quasi in un misterioso labirinto, e si perde del tutto l’orientamento, come se uno fosse cieco. Non ci si riesce mai a convincere davvero che quelle siano autentiche strade e che quei mostruosi edifici così accigliati e cupi siano davvero delle abitazioni…”. Ho verificato che in effetti è facile perdersi, e mi sono perso.

Karel Capek, scrittore e drammaturgo ceco vissuto nei primi decenni del secolo scorso, dice che Genova è una città fatta di scale, di ascensori, di funicolari e di cavalcavia. Le case a prima vista sono alte e strette quasi appoggiate l’una sull’altra. Ma per Capek questa è solo l’immagine immediata di coloro che si aggirano in città senza entrare nei palazzi e nei loro cortili “incantati” pieni di aranci, melograni, roseti, gelsomini. Tutto questo rimane nascosto al comune visitatore ed è rimasto nascosto anche a me e forse anche ad un altro illustre visitatore come Henry James. che descrive Genova come “il villaggio più intricato del mondo” fatto di strade strette senza sole animate da persone che si muovono da una parte all’altra della città nell’oscurità dei vicoli.

Non solo non sono riuscito a vedere gli incantati giardini ma non sono riuscito neppure a fotografare i caruggi come speravo, come non sono riuscito a fotografare le creuze, le ripide stradine di campagna che scendono dall’alto delle colline verso il mare, incassate da due alti muraglioni. Forse è più facile fotografare la crêuza di mare di De André, il richiamo allegorico presente nella sua famosissima canzone dove la creuza non è la tipica stradina genovese ma un prodotto dell’immaginazione e del fenomeno proprio del mare calmo che, sotto l’effetto del vento, crea striature contorte e argentate, simili alle stradine genovesi che diventano così crêuze de mä,  vie utili per intraprendere viaggi reali o metaforici. Le creuze reali, come i caruggi, con la loro ristrettezza, i loro confini che limitano lo sguardo e l’obiettivo si ritirano scontrosi con l’aiuto dei muri delle creuze e dei palazzi dei caruggi così come ostacolano gli sguardi dei passanti creando un ambito di riservatezza estremo tanto caro, almeno si dice, ai genovesi ma ostile per gli altri. E il mare diventa una sorta di liberazione, di recupero della libertà.

Alla fine però arrivano i saltimbanchi a fare in modo che la giornata non sia completamente negativa, un evento che prende il sopravvento sulla città di pietra ma che ne fa parte come ogni cosa che in essa accade. L’obiettivo è fatalmente attratto da loro, dal momento di sospensione del senso di realtà che la città aveva pesantemente imposto. È una liberazione che si prolunga e porta a scoprire altri momenti inattesi che rovesciano in  qualche modo l’ostilità di Genova e aprono una finestra su un’anima imprevista e leggera, ospitale, un’anima che però rischia di trasformarsi nell’anonimo orizzonte visivo uguale per tutte le città fatto di ritrovi, di pseudo improvvisazioni di spettacoli, soprattutto durante le festività, quando si apre la corsa alle luci e agli addobbi, al mascheramento più cospicuo dell’identità in favore del superfluo, illusorio e omologante sfavillio di lampadine colorate che esercitano però il loro fascino, attraggono come le sirene dei messaggi pubblicitari. E non è facile resistere a questo canto così invadente e invasivo.

massimocec febbraio 2012