Il pesto dello zio Zefirino

Ovidio Della Croce

Foto di Massimo Ceccanti

Lo zio Zefirino si svegliò, una mattina di sabato, andò nel suo giardino, ascoltò i comizi delle cicale e curò il basilico nel gran bel vaso messo nel posto giusto, non troppo sole non troppa ombra, dirimpetto alla casa della vecchia signora.

“Bene, si disse, tra poco c’è il pesto per tutti”.

La vecchia signora uscì di casa: “Sta crescendo bene il basilico, basta aspettare un’altra settimana e darà i suoi frutti”.

“Il basilico è nato per il pesto”, rispose Zefirino. “Perché ci sia il pesto molte cose spettano alla buona volontà di chi lo coltiva, ma una spetta alla volontà della natura”.
“Per fare un buon pesto ci vuole il parmigiano reggiano, uno spicchio d’aglio, i pinoli del Parco di Migliarino e l’olio franto con le olive dei nostri monti”, disse la vecchia signora.

Lo zio Zefirino alzò il capo all’insù in direzione del sole e disse: “E poi ci vuole che succeda qualcosa per non farlo saper di menta e lo innalzi a quel ruolo regale che il basilico deriva dal suo nome: in greco “basilikon” vuol dire pianta regale, da “basileus” che significa re.
“Questo giardino non era un luogo così ben curato, era pieno di sterpaglie, le facciate delle case venivano giù a pezzi”, disse lo zio Zefirino tanto per dire qualcosa, “ora invece è una delizia, perfino in un giorno torrido come questo è fresco, ci ho sepolto la mia gattina”.

“Se le piace, si faccia mettere anche lei nel suo giardino. Anche il fisico famoso, il padre delle due ragazze che hanno l’edicola è, fuor di metafora, fisicamente in fondo al giardino di casa sua, accanto al cane Icaro. Mio marito è qui accanto a me. Se qualche sera vado dalle mie nipotine non mi fermo a dormire, torno a casa, non riesco a prender sonno senza di lui, dopo cinquantasei anni di matrimonio mi canta sempre la ninna nanna. Ora è lì, nel vaso. A Livorno sembrava di essere in una pizzeria dal via vai che esce dal forno crematorio, ci vogliono venti trenta minuti, quello che resta viene messo dentro un’urna e poi ti danno un certificato di cremazione dove c’è scritto anche il posto in cui verranno messe le ceneri. Ci sono andata, ma il mio vaso era piccolo e ho dovuto prendere quello che danno loro in dotazione”.
 Da lontano si sentì una sirena di ambulanza, lo zio Zefirino si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte e disse: “C’è qualcuno che sta peggio di noi”. Poi le chiese: “Mi scusi la curiosità inutile e un po’ macabra, quanto pesava?”.

“Mio marito era un metro e settantotto, alla fine pesava sessantacinque chili, ma quello che conta è la statura, le sue ceneri sono due chili e mezzo e sono qui in camera mia, le vuole vedere?”.

Entrarono nella piccola casa a piano terra che dava sul giardino, la vecchia signora accompagnò Zefirino nella sua camera, si avvicinò al comodino, prese l’urna e la mise sul letto.

“L’ho fatto perché lui mi ha sempre detto che voleva essere cremato, ma voleva stare insieme a me, non voleva essere sparso da solo, voleva unire le sue ceneri alle mie, così me lo hanno dato e me lo sono portato a casa. Eravamo una cosa sola, quando sarà il momento torneremo ad esserlo anche se sul vaso ci saranno i nostri due nomi”.
 Zefirino rimase in silenzio davanti a quel vaso che sembrava di alluminio e si rese conto che grondava di sudore.

“Lo prenda pure in mano”, disse la signora.

Lo zio Zefirino strinse l’urna con le due mani e la sollevò un po’ dal letto, accennò un sorrisetto pieno di denti e la rimise subito lì. Ringraziò la vecchia signora, la salutò e andò ad annaffiare il basilico.

“L’ufficio della Società pisana per la cremazione è aperto dal lunedì al venerdì, dica pure a me”, disse il giovane, forse un impiegato, preoccupato per l’aria stralunata di Zefirino che, rosicchiato da una leggera ansia, a mezzogiorno del secondo sabato di luglio del duemilaquindici, aveva attraversato la città con i finestrini aperti, ma l’aria era torrida e la macchina un forno.

“Fa un bel caldo, meno male che qui si respira”, rispose Zefirino sudaticcio, si avvicinò all’impiegato e con un sorrisetto gli chiese: ”Sono venuto a informarmi per la cremazione, sa alla mia età è bene cominciare a pensarci, non sono sposato e non vorrei lasciare grane a mia figlia”.

“Fa bene”, disse il giovane impiegato.

Zefirino la buttò in poesia e ricordò la prima cremazione in Italia: il poeta Percy Bysshe Shelley annegò il diciotto luglio milleottocentoventidue di fronte a Lerici, il suo amico Byron lo portò sulla spiaggia di Viareggio, depose il suo corpo su una catasta cosparsa di balsami e lo bruciò.

Il giovane impiegato tornò alla prosa: “Bastano venti euro per iscriversi, firmare un atto notarile in cui dichiara la sua volontà di essere cremato e poi versare una quota di dieci euro l’anno”.

Zefirino ringraziò e si infilò nel vano scale. Poi tornò subito sui suoi passi e bussò nella saletta dove aveva visto entrare il giovane che si era seduto in ultima fila che, appena se ne accorse, gentilmente uscì nonostante la conferenza fosse in pieno svolgimento.

“Mi scusi di nuovo, sono aumentate in questi anni le cremazioni?”, chiese Zefirino.

“Sì, in questi ultimi anni c’è stato un picco, sta cambiando la cultura della gente e anche l’atteggiamento della Chiesa. Poi ha aperto da pochi mesi il nuovo forno crematorio in via Pietrasantina e non si è più costretti ad andare fino a Livorno”.

“Grazie, molto gentile”, disse Zefirino e sparì dietro l’angolo delle scale.

La domenica mattina verso mezzogiorno lo zio Zefirino attraversò il cancello e salutò il guardiano del cimitero. C’erano poche persone e, fuor di metafora, si crepava dal caldo. Andò direttamente alla tomba dei suoi nonni paterni e rimase colpito dalla data: erano morti tutti e due nel millenovecentocinquantasei, a un mese di distanza l’una dall’altro. Poi, colto da uno spirito da commerciante come erano stati i suoi, fece due conti sul costo di un contratto per un posto al cimitero, due o tremila euro per venticinque anni.

“Che razza di idea venire al cimitero a quest’ora e con questo caldo”, pensò Zefirino mentre lo sguardo gli andò alla data di morte di suo padre e della sua tata, anche loro se ne erano andati a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra, trent’anni dopo i suoi nonni, nel millenovecentottantasei.
 “Quanto fa millenovecenocinquantasei più trenta? Millenovecentottantasei. Più trenta? Duemilasedici”, pensò lo zio Zefirino tutto sudato. Poi si disse che non era la sua volontà a fare questi stupidi calcoli, che era meglio andarsene e non pensarci.

Rientrato a casa Zefirino raggiunse il giardino, un venticello fresco accarezzava le foglie dell’olivo, vide la vecchia signora seduta su una panchina.

“Me ne sto qui in pace a guardare il suo basilico, senza essere disturbata da anima viva”.

“Fuor di metafora”, disse Zefirino. “Vi siete amati molto”, aggiunse.

 “È stato l’uomo del mio cuore, ma ora sa, il mio cuore è malandato, ogni giorno che passa è un regalo, mangio presto e poco, cinquanta grammi di pasta al giorno e poca frutta che fa ingrassare anche quella. Lei, se le piace, può farsi mettere nel suo giardino, non ci sono lapidi, ma l’erba è ben tenuta, c’è una bouganville spettacolare, i gerani fioriti, il salice piangente e il profumo del suo basilico. Anche qui, sotto l’olivo, si può godere una pace eterna”.

“Fuor di metafora”, disse Zefirino e si mise a cogliere il basilico per preparare il pesto per il pranzo del giorno di festa. Pensò di prepararne molti, moltissimi barattolini e di congelarli. Pensò anche di scrivere a mano un’etichetta e attaccarcela: “Il pesto dello zio Zefirino”.

Si immaginò non più di questo mondo e, in una sera d’estate, sotto l’olivo c’era gente e lui, da un punto infinito, rideva mentre le persone condivano la pasta al pesto scongelato in sua memoria: “Volete favorire?”

odellac settembre 2017