Luoghi e non luoghi

Jan Vermeer Delft La stradina

Ho chiamato questa sezione luoghi perché non mi sembrava adatto il termine paesaggi. Primo perché anche altre sezioni riguardano paesaggi. Secondo perché il termine richiama un po’ troppo le fotografie di grandi fotografi come Ansel Adams o Gabriele Basilico, fotografie in cui spariscono le persone, in cui non emerge la sguardo rivolto al rapporto tra persone e spazio in cui esse sono inserite e perciò non corrispondono al mio interesse verso lo spazio che ci circonda, in cui coabitano oggetti e persone, lo spazio che non è solo oggetto fisico ma insieme di oggetti e sguardi, di relazioni. Mi piacciono le fotografie di questi grandi fotografi, ma non riesco a farle diventare completamente mie. I paesaggi mi attraggono ma non mi soddisfano pienamente. I luoghi sono pieni di storie, di narrazioni, di sentimenti, di emozioni, di stati d’animo, di memorie, di ricordi, di persone o di personaggi, di soggetti.

Il paesaggio raffigurato che produce il paesaggio visto è un’invenzione dell’uomo è ha una sua storia come tutte le invenzioni. Secondo Gombrich il paesaggio è il frutto dell’invenzione di artisti e in particolare degli artisti del Rinascimento (Gombrich “La teoria dell’arte nel Rinascimento e l’origine del paesaggio”, in “Norma e forma” Torino, Einaudi, 1973). Il paesaggio è frutto di una tradizione artistica che crea una realtà prima non vista e ancor più prima non presente. Il paesaggio ha quindi una sua storia e i suoi strumenti, che essenzialmente sono le raffigurazioni che hanno successo, che creano ciò che vediamo nella massa caotica di dati di senso che ci inondano e ci sommergono come le onde del mare mosso, che impediscono ci colpiscono di vedere. Nel corso della storia, ciò che definiamo paesaggio muta perché cambia lo strumento e forse ha forse ragione  Anna Ottani Cavina quando nel suo libro  “Terre senz’ombra”  (Adelphi, 2015) dice che il nostro moderno concetto di paesaggio è il frutto di uno di questi cambiamenti, quando dice che il nostro concetto di paesaggio è nato in Italia per mano di pittori del Nord Europa che venivano a visitarla tra fine 700 e inizio 800. L’idea moderna di paesaggio è legata all’abbandono da parte dei pittori dei loro atelier, al loro scendere in strada con la tela e il cavalletto in cerca di esperienze dal vero. Sono pittori che precedono i fotografi, li anticipano. I loro paesaggi non sono più paesaggi “saturi di rimandi letterari, filosofici, sentimentali” ma sono tentativi di congelare l’esperienza visiva su tela. Nasce in quel momento un’altra idea di paesaggio che poi è diventata quella dei fotografi. Il paesaggio diventa l’istantanea che riesce a cogliere un particolare luce, un elemento estetico, un angolo “pittoresco”. Quadri che sembrano fotografie e fotografie che sembrano quadri.

Quello che cerco in ciò che chiamo luoghi è qualcosa di diverso. Anche i paesaggi “fotografici” in fondo sono una sorta di astrazione che diventa norma.  Forse per capire qualcosa sui luoghi è più utile pensare alla pittura olandese del Seicento con gli occhi non di chi vi cerca i simboli di qualcosa d’altro, ma di chi vi vede il semplice piacere di ritrarre il proprio mondo senza scopi educativi, comunicativi o altro (Tzvetan Todorov “Elogio del quotidiano”, Roma, Apeiron, 2000). Una pittura che con atto ostensivo dice “È lì che viviamo, che la nostra vita scorre”.  Non un realismo passivo e riproduttivo ma un realismo teso a far emergere la bellezza del quotidiano e a far uscire la vita quotidiana dalle cose senza valore.

I luoghi non sono né il frutto della registrazione passiva e casuale di un film che scorre né fotogrammi di istanti estratti da quel continuo per il solo loro valore estetico, ma sono il frutto dell’individuazione  in questo film di istanti significativi, portatori di un senso che non sempre si rivela in modo perspicuo, portatori di un valore perché legati a emozioni personali, a stati d’animo non stereotipati o non suggeriti dalla riproduzione standardizzata delle immagini ad effetto, istanti non prodotti grazie all’obiettivo scaltro del fotografo o alla tecnica asettica del pittore, o ancora alle parole studiate dello scrittore; sono istanti afferrati e perciò sottratti al fluire silenzioso e omicida del tempo perché vissuti in prima persona. È lo sguardo del fotografo non smaliziato che con sforzo reifica tali istanti, che sceglie e crea, dà vita autonoma, valore estetico ed etico a tali istanti. In tal senso rientra in gioco la questione della verità associata alla bellezza e al bene, tema così caro al mondo classico e caduto in disuso con l’affermarsi della moderna estetica settecentesca. Tema complesso, aperto, inesauribile.

I luoghi si possono definire anche mediante la contrapposizione rispetto ad altri due concetti: l’altrove e i non luoghi. L’altrove come luogo indefinito, il luogo della scoperta, del viaggio, dello spaesamento. Un elemento necessario per non rimanere intrappolato nelle gabbie che il luogo con il suo senso di appartenenza crea, uno strumento necessario per innescare il gioco dell’equilibrio, dell’oscillazione, un gioco estremante più ricco di quello sia della semplice appartenenza sia del non sentirsi mai a casa in nessun luogo. La dimensione dinamica, conseguenza della continua ricerca di un punto di equilibrio, offre al soggetto che riesce a viverla, accettandone anche i rischi, molto di più della dimensione statica, più rassicurante ma anche più opprimente e limitante.

Nello stesso tempo il termine luogo rimanda, per contrapposizione, al concetto introdotto dall’antropologo Marc Augé di non luogo, cioè di tutti quegli spazi che si mostrano come non dotati di una propria identità, privi di elementi relazionali e storici, spazi in cui gli individui, concentrati in grandi quantità, si incrociano senza entrare in relazione e senza che scatti quel sentimento di appartenenza legato al riconoscimento di un vissuto, di un passato. I non luoghi sono privi di storia, sono concentrati sul presente e destinati forse a non lasciare traccia.  Sono gli spazi della transitorietà, del consumo inteso come semplice metabolizzazione degli oggetti senza mediazione culturale, senza integrazione con la cultura del contesto, gli spazi del non vissuto. Chi vi transita è avvolto dall’anonimato e i rapporti con l’ambiente sono standardizzati: voci preregistrate, cartelli, immagini pubblicitarie che si ripetono identiche ovunque in ciascuno di questi non luoghi. Sono gli spazi della spersonalizzazione.

Forse questi spazi diventeranno per i giovani dei luoghi. Una recente ricerca ha mostrato come i centri commerciali siano punti di ritrovo degli adolescenti. I giovani forse non li percepiscono come una cosa estranea rispetto alla loro cultura ma come un luogo vero e proprio dove si può esprimere la socialità e incontrare gli amici. Io non riesco a percepirli in questo modo. Per me rimangono non luoghi e i luoghi sono quegli spazi grazie ai quali si possono costruire legami personali, culturali, emotivi, estetici ed etici co me stesso e con le altre persone che li condividono. Sono spazi dotati di una propria identità e la fotografia può diventare uno strumento per cercare questa identità. Naturalmente, essendo l’identità il prodotto di relazioni, non è un oggetto da cercare nel profondo, ma da costruire nel rapporto. I luoghi di cui parlo con le mie immagini vorrebbero essere non uno spazio fisico rappresentato per le sue caratteristiche estetiche, ma uno spazio prodotto dalla relazione di affetto, dalla ricerca dei legami, dei fili e delle reti che mi hanno portato a sceglierlo a raggiungerlo e ad esplorarlo con la mia macchina fotografica.

Può darsi che prima o poi anche i non luoghi mi interessino da un punto di vista fotografico, e questo sarà quando riuscirò a percepire la loro natura di luoghi umanizzati, di luoghi dal punto di vista antropologico, emotivo, relazionale. I giovani forse hanno già compiuto questo passo e noi non ce ne siamo accorti o stiamo negando che ciò sia possibile perché è estraneo al nostro modo di vedere. Però così facendo non neghiamo dignità alle scelte dei giovani? Non neghiamo loro ciò che invece pretendiamo da loro, il riconoscimento di dignità per i nostri luoghi? Riconoscere tale dignità non coincide con il trasformare i loro luoghi in luoghi anche nostri?

Del resto ci sono già dei non luoghi interessanti e che mi incuriosiscono per come sono stati colti dalla cultura fotografica italiana. Mi riferisco alle fotografie di Ghirri e del suo Viaggio in Italia realizzato con la collaborazione di un’altra ventina di fotografi. I suoi sono non luoghi, luoghi che potrebbero essere dovunque, che non è possibile riconoscere come portatori di una propria identità geografica. Eppure sono non luoghi che hanno modificato la fotografia del paesaggio, l’hanno orientata in altre direzioni nella scoperta di ciò che non vediamo non perché fisicamente nascosto ma perché avvolto dalle nebbie del quotidiano e dell’abitudinario, perché lo consideriamo insignificante. Eppure tutto ciò è la componente più importante del nostro orizzonte visivo. La fotografia può sottrarlo alla non visibilità e renderlo degno di attenzione. Con quali effetti? Il primo potrebbe esser quello del disincanto, dell’abbandono dell’idea di vivere in un paese che esiste solo come paese”sognato”, della presa di contatto con ciò che siamo. Il secondo potrebbe riguardare la introduzione della prospettiva del senso del possibile intesa come dilatazione dello sguardo, come introduzione di altri punti di vista, di altre ottiche con le quali guardare la realtà. Il terzo potrebbe riguardare l’idea della democratizzazione della bellezza, l’abbandono dell’idea della gerarchia estetica che suddivide il mondo in ciò che è significante, rilevante e in ciò che non lo è sulla base delle categorie di bello e brutto. Il nostro mondo sta cambiando e anche il paesaggio sta seguendo questa sorte. Se non iniziamo a rapportarci anche visivamente con questi cambiamenti rischiamo di rimanere ancorati a modelli visivi che non hanno più corrispondenza nel reale e quindi a condannarci a vivere nella nostalgia. La ricerca fotografica sui non luoghi del paesaggio come li intende Ghirri è quindi l’opposto di ciò che Augé chiama non luogo. È Gianni Celati che mette bene in evidenza questa lontananza.

“Noi aspettiamo ma niente ci aspetta, né un’astronave né un destino. Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo” (G. Celati Verso la foce).

E la fotografia può essere questo chiamare le cose, un chiamare libero dagli stereotipi, aperto al senso del possibile e nello stesso tempo ancorato al mondo reale, al mondo in cui quotidianamente viviamo tutti i giorni. Una fotografia d’osservazione, di emozioni, di ricordi e di comprensione di questo mondo, questa è la fotografia dei luoghi così come io la intendo. Una fotografia strettamente legata e alleata alla parola, alla narrazione, alla letteratura e ai sentimenti e alle emozioni.

agosto 2017 massimocec