L’isola del Tino

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Nonostante sia passata la fase più drammatica di questa pandemia, ancora non riesco a sentirmi libero di riprendere la vita come prima, di uscire, incontrare persone, andare al cinema, a teatro, al ristorante. Ogni uscita dal guscio protettivo che mi sono creato, un guscio forse più apparente che reale, è un po’ un atto di forza cui mi sottopongo. Però quando ci riesco mi sento sollevato e mi sembra di recuperare un senso di leggerezza che in questi due anni e mezzo sembra essersi dileguato.

La possibilità di un giro in barca intorno all’isola del Tino mi si è presentata come una sollecitazione in grado di contrastare le spinte a rimanere chiuso in casa. Mi mancano le sensazioni legate ai viaggi, al mare, alle viste di luoghi immaginati o già visti. Il Tino è uno di questi luoghi. Scoglio oggi disabitato, senza acqua potabile e senza esseri umani che ci vivono, con una storia che contiene tratti di mistero legati alla presenza prima di un santo protettore, San Venerio, vissuto in eremitaggio su questo scoglio, e poi di resti di una chiesa e di un insediamento monastico che evocano momenti che l’immaginazione trasforma in epici e tragici insieme, legati alle incursioni dei pirati saraceni, all’immaginazione dei momenti vissuti dai monaci di vigile attesa di fronte a tali pericoli, alle devastazioni conseguenti e alle forme di resistenza forse adottate contro questi invasori, alle fughe verso terre più sicure. Vi è poi, a rafforzare l’aura di mistero che avvolge il Tino, un faro che emette segnali luminosi visibili nell’oscurità marina dai paesi costieri vicini, da Vernazza, Monterosso, Corniglia, Rio Maggiore, Manarola, Monte Marcello, Lerici, e dalle navi che si avvicinano al porto di La Spezia.

Anche in occasione del nostro giro intorno all’isola, a sera, il faro si è acceso e non ho potuto fare a meno di pensare all’arrivo della sera per i guardiani del faro, una presenza anch’essa estinta, alle loro lunghe notti passate a controllare i macchinari o al loro stato d’animo durante i temporali e le tempeste, soli sullo scoglio che non possono abbandonare, senza nessuno che possa venirli a prelevare o ad aiutare, costretti ad aspettare che il brutto tempo passi e lasci incolume il faro. Forse vivevano lì, soli in mezzo al mare, con la moglie, con qualche gallina, coltivando tra le rocce un po’ d’orto come facevano gli abitanti delle isole Aran o pescando e aspettando, in un’esistenza parallela rispetto a quella dei guardiani delle dighe di alta montagna.

Per qualche ora è tornato l’atteso senso di leggerezza, la serenità che sembrava svanita grazie anche alle vedute del lato ovest dell’isola di Palmaria, vedute di falesie a picco sull’acqua, di golfi che si aprono davanti a noi quasi come l’orchestra di fronte alla cavea di un teatro greco e di inaspettate grotte. E infine grazie ai colori di uno stupendo tramonto.

massimocec settembre 2022