Coltano

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GALLERIA VECCHIE FOTO DI COLTANO

Tra Pisa e Livorno una volta c’era la palude. In quella zona oggi c’è l’area di Coltano, una frazione del comune di Pisa poco popolosa a carattere agricolo, con aree boschive, pinete, molti canali e fossi, solcata nella parte verso il mare dall’autostrada.

Molti anni fa frequentavo quella zona. Spesso la domenica andavo in bicicletta a trovare il mio amico Roberto che viveva con i suoi genitori e suo zio nell’idrovora del Ragnaione. Erano viaggi visivamente rilassanti.

Abbandonata l’Emilia, la strada statale, si percorreva una strada in gran parte alberata fiancheggiata da campi che cambiavano colore con il cambiare delle stagioni. In lontananza si vedeva la linea del bosco. Arrivati ad un certo punto, alla confluenza di due fossi, c’era un allevamento di mucche. Era per i miei occhi quasi un paesaggio bucolico che rinfrancava la mente. E poi ancora prati circondati da rovi che costituivano un folto sottobosco che mi accompagnava fino all’idrovora, un reperto di archeologia industriale. Quasi tutto il tragitto era un percorso solitario e silenzioso, spesso accompagnato da un leggero vento che talvolta aiutava e talvolta ostacolava la pedalata.

Qualche volta arrivavo a Coltano dalla pineta e le sensazioni erano diverse. Le strade della pineta per me erano le strade del mare, delle vacanze estive, del caos. Mi sembrava strana l’associazione della visione della pineta con il paesaggio agricolo, anche se è comune in tutta la costa toscana, compresa la zona retrostante la pineta di Marina di Pisa e Tirrenia, dove al limitare della pineta ci sono campi, casolari, poderi.

Mi piacevano quei pranzi della domenica in quello strano edificio collocato tra due vasche, costituito essenzialmente da un’enorme stanza che ospitava enormi tubi ricurvi che, quando messe in funzione le turbine, rumoreggiavano paurosamente.

Sopra questa stanza, raggiungibile grazie ad una scala interminabile, c’era l’appartamento di Roberto e dei suoi genitori. Lo zio di Roberto era il guardiano dell’idrovora e viveva in un appartamento adiacente. Doveva sorvegliare il livello delle acque e il corretto funzionamento delle turbine quando le acque dei fossi interni salivano oltre un certo limite. Coltano, infatti, era una zona paludosa, utilizzata come riserva di caccia dai Lorena e, ancor prima, come luogo per coltivare grano e allevare animali. I Savoia che avevano ereditato la tenuta la utilizzarono per allevare cavalli.

Dalle finestre d’inverno dominava il coloro fulvo della boscaglia e in primavera il verde brillante dei prati. D’intorno c’erano solo boschi, campi e canali. In lontananza dalle finestre verso sud si vedeva la ferita dell’autostrada che tagliava trasversalmente tutta la campagna. Non passava quasi nessuno durante tutto il giorno. Eppure una volta Coltano era un paese quasi autonomo. C’era la scuola elementare, una chiesetta, l’oratorio, il macellaio, l’ufficio postale, il medico, il veterinario, il barbiere (un certo “Leggerino”), la Casa del popolo, le bocce, la sala da ballo, il benzinaio che doveva essere chiamato a gran voce per poter avere la benzina pompata a mano con la manovella, il granaio, le stalle, un piccolo supermercato, naturalmente Coop, un’officina, il negozio di alimentari, e poi i lavori stagionali che richiedevano un impegno collettivo, la vendemmia, la raccolta del grano, con relative cene nei cortili. E le veglie estive con gli uomini che giocavano a carte e le donne a chiacchierare mentre si occupavano di piccoli lavori a maglia o a sgranare le pannocchie di granturco. Ora tutto ciò è sparito. Rimangono quasi soltanto dei ruderi interrotti da  tentativi di agganciarsi al filone del turismo e delle vacanze per salvare quel che rimane di Coltano.

Nel 1581 a Coltano si dice sia arrivato Michel de Mointaigne. Nel suo diario, “Viaggio in Italia” però ho trovato soltanto un passo che potrebbe fare riferimento a questo luogo, ma la nota che accompagna il passo parla di San Rossore e non di Coltano. Comunque, credo che, se la descrizione fosse quella di Coltano, non sarebbe stata molto diversa. Mointaigne è a Pisa dal 3 al 27 luglio nel periodo in cui anche allora “Cessava la scuola, come è il costume tre mesi del gran caldo”. Il 7 luglio, di venerdì, “di buona ora, andai a veder le cascine di don Pietro di Medici, discoste di due miglia della terra. Egli ha là un mondo di possessioni che tiene da per sé, mettendoci di 5 in 5 anni nuovi lavoratori, con pigliarne la metà dei frutti. Terreno abondantissimo di grano. Pasture dove tiene d’ogni sorte d’animali. Scavalcai per veder il particolare della casa. Ci sono gran numero di persone che travagliano a far ricotte, buturo, casci, e diversi instrumenti per questa opera.

Di là, seguendo il piano, capitai alla spiaggia del mar Tirreno, d’una banda scorgendo l’Erici a man dritta, dall’altra Livorno più vicino, castello posto nel mare. Di là si scuoprono a chiaro l’isola Gorgona, e più oltra Capraia, e più oltra Corsica.”. Potrebbe benissimo essere la descrizione di Coltano che si affaccia sul mare dove oggi sono Tirrenia e Marina di Pisa. Non c’era ancora la villa medicea costruita nel 1586 dal Buontalenti, ma c’erano senza dubbio le terre in parte bonificate che producevano cereali e latticini, i prati dove pascolavano gli animali, l’allevamento del bestiame. Oltre a ciò, le zone di caccia così care ai Lorena che avevano trasformato Coltano in una loro tenuta, e poi l’allevamento dei cavalli dei Savoia con la costruzione delle stalle intorno alla villa medicea, un edificio che, le prime volte che ho visto, mi sembrava fuori luogo in quella distesa di campi e boschetti, con quel suo aspetto signorile, le quattro torri, l’orologio, il suo essere quasi circondato da un piccolo villaggio di case non in sintonia con il suo stile architettonico. E poi ancora la raccolta del falasco, il girovagare degli “aratri a vela”, navicelli che solcavano le acque e dei quali si poteva vedere solo la vela, essendo il resto dell’imbarcazione nascosto dalla vegetazione, grano o falasco che sia.

Anche i toponimi che si incontrano lungo la strada rimandano a questo passato di palude: Le Rene, l’Isola, i Palazzi, Tombolo. Anche questi nomi rientravano nella mia immagine mattutina quasi non fossero parole ma elementi del paesaggio.

Poi la rete di canali, i ponti, le idrovore che invece richiamano un altro periodo della storia di Coltano, quello della bonifica a partire dagli anni Venti. Anche la bonifica rientrava nelle mie fotografie mentali di Coltano perché dopo la bonifica arrivarono i coloni dal Veneto, dalla Romagna, dalle Marche. La famiglia del mio amico Roberto era in parte legata a questa migrazione. La madre era veneta e la sua famiglia era una di quelle grandi famiglie patriarcali di contadini coloni che si erano insediati nelle terre della bonifica affidate all’Opera Nazionale Combattenti. I nuovi toponimi della bonifica risentivano di questa gestione: Grappa, Pasubio, Piave, Isonzo. Ma questi non riuscivano a trovare posto nella mia immagine di Coltano. Una loro collocazione ben precisa invece l’avevano i fabbricati dove i coloni andarono ad abitare, case tutte uguali, di forma rettangolare, con una piccola appendice laterale e, staccato, un grande fienile. Tutte alla stessa distanza allineate come una fila di soldati. In una di queste vivevano i nonni e gli zii di Roberto. Nelle feste spesso mi capitava di partecipare ai loro grandi pranzi familiari. Era per me una cosa nuova. Non facevo parte di una grande famiglia e assaporavo il piacere di essere coinvolto in tale sorta di riti che però non erano formali. Era un coinvolgimento caloroso che scaldava il cuore. Ma soprattutto mi piacevano i pranzi delle vendemmie. Erano riti cui ero abituato fin da bambino. I miei genitori avevano diversi parenti contadini e, quando arrivava il momento della vendemmia, tutti i conoscenti venivano chiamati a raccolta per raccogliere l’uva. Al termine della giornata, dopo una colazione a metà mattinata e un pranzo consumato su grandi tavolate, c’era l’immancabile cena nell’aia o nella grande cucina. Andavamo in bicicletta ruotando tra i parenti che si organizzavano in modo da poter avere a disposizione il maggior numero di persone. Ero troppo piccolo per cogliere l’uva e quindi prendevo posto sul carro trainato da un paio di mucche dove era stata montata una botte e accompagnavo il conducente che nei tratti più facili mi faceva anche condurre gli animali. Da Roberto non c’erano più le mucche ma il trattore. Anche lì però sono stato impiegato come conduttore per la prima volta in vita mia di questo per me strano veicolo. Anche da Roberto gli immancabili pranzi e le cene collettive. Era un po’ come tornare indietro nel tempo. Ritrovare una sorta di aria di famiglia.

La sera dalla casa degli zii di Roberto si vedevano in lontananza delle luci allineate. Roberto mi spiegò che erano le luci di una stazione radio dell’esercito americano. Da lì la scoperta che Coltano era una sorta di luogo accogliente per tale tipo di impianti, proprio per la sua posizione e per la presenza di acquitrini. Nel 1903 Guglielmo Marconi scelse Coltano per mettere in piedi la sua prima stazione radio intercontinentale. Era una stazione trasmittente, la stazione ricevente era nel padule di Vecchiano, a Nodica. Le due stazioni erano unite da un cavo sotterraneo che attraversava l’Arno sul ponte Solferino. Della stazione di Marconi sono rimasti solo i ruderi.

Fino a poco tempo fa nella pineta di Coltano era ospitato un campo Rom. Non era la prima volta che Coltano ospitava insediamenti del genere. Subito dopo la guerra, nel’45, fu aperto nella zona un campo di concentramento per ex militari della Repubblica Sociale Italiana. Erano ospitati nel campo oltre 30.000 prigionieri. Due esperienze totalmente lontane allo spirito di questo luogo. Non riesco a immaginare Coltano come luogo di prigionia, di ammassamento di persone. Per me è il luogo della libertà, della solitudine leggera, della visione serena del verde dei campi solcati dai fossi, del colore fulvo dei boschi nelle nebbie e nel freddo della stagione invernale, del grigio delle zolle dei terreni arati e del silenzio nonostante l’autostrada, l’aeroporto, la ferrovia.

massimocec novembre 2020