Molina di Quosa

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Molina è un piccolo paese che si allunga sulle pendici di una collina come un serpente che si gode il sole primaverile. È attraversato da un torrente le cui acque una volta alimentavano le pale di alcuni mulini; tracce di essi possono sono ancora presenti per occhi che percorrono senza fretta la tortuosa strada che sale fino alle ultime case del paese per ricongiungersi alla più agevole strada panoramica. La strada che percorre tutto il paese dal basso verso l’alto mi ha sempre affascinato per le sue vedute che, quasi ad ogni curva, si aprono sulla piana del Serchio davanti a camminatori pigri e curiosi, ma anche per gli angoli inaspettati, per la forma delle case, per il silenzio e la solitudine che accompagna chi la percorre.

Non so quanti vecchi molinesi abitino ancora in questo paese. Forse pochi. Vivere in queste vecchie case non facilmente raggiungibili dalle auto, con stanze comunicanti mediante strette e ripide scale non è oggi una scelta facile e a luoghi del genere viene spesso assegnato il compito di accogliere nei fine settimana solo stressati cittadini bisognosi di un terapeutico riposo. E così del vecchio paese rimane solo l’esteriorità, la pelle. Il paese rischia di diventare una sorta di colonia, eppure ogni volta che percorro la sua strada verso il monte o, viceversa, dal monte verso il basso, ogni volta che ho l’occasione di guardare il paesaggio che si mostra davanti agli sguardi che si affacciano dalle finestre di qualche amico che abita in una delle case poste più in alto del paese, la mente si abbandona ad un piacevole gioco fatto di ricorsi, sensazioni, forse sana nostalgia non contaminata dagli stereotipi della rievocazione del tempo che ci ha abbandonato, ma impegnata a non far dimenticare i luoghi e le persone che ci sono state accanto e che hanno contribuito a dare alla nostra esistenza uno spessore che ci permette oggi di non sentirci una particella mossa solo da probabilistiche leggi che non sono in grado neppure di determinare con precisione la sua posizione nel tempo e nello spazio o che addirittura ci informano che tempo e spazio non esistono. Forse più di me possono presentare Molina due miei amici, marito e moglie, che hanno deciso di viverci o di ritornare a viverci dopo aver girovagato per mezzo mondo. I due testi sono stati pubblicati sulla Voce del Serchio

Perché vale la pena tornarci

“Il ritorno è inerente al corso della natura, / il movimento è circolare, / ogni cosa avviene da sé non appena il suo momento è giunto. / Questo è il senso di cielo e terra”. Da “I CHING”

Mai avrei immaginato di scoprirmi così visceralmente ancorata ai “miei luoghi”. Eppure è accaduto. Sono nata a Molina di Quosa, in Val di Serchio e volentieri me ne andai a vivere altrove, per parecchi anni, senza mai trovare pace. L’insofferenza verso la vita di provincia mi aveva a tal punto afflitta da cogliere la prima occasione per fuggire, alla ricerca di un luogo che non avesse le caratteristiche del mio di provenienza. Un luogo entro il quale poter passeggiare, sgusciare tra la gente senza il rischio di venire fermati, interrogati sui propri fatti privati, senza incorrere nel rischio degli obblighi sociali che un paese di neanche mille abitanti impone. Ho compreso che Molina non aveva colpe, che l’inquietudine è sempre stata un tratto del mio carattere e che il desiderio di essere altrove, idealizzando l’altrove come luogo magico e salvifico, mai veniva appagato; l’altrove si rivelava sempre deludente, poiché lo spostarsi, il “fluire”, lo “sgusciar via”, sono solo le sembianze attraverso le quali si manifesta la “paura del vuoto” che mi abita da sempre.

Grazie all’insofferenza e al bisogno nevrotico di fuga, una persona conosce, cresce e si arricchisce, misurandosi anche con il disagio causato dal trovarsi “senza radici” culturali, in luoghi alieni, entro paesaggi umani portatori di una cultura altra, diversa. Allontanandosi dal luogo dove si nasce e si cresce si scopre il valore del senso di “appartenenza”, il quale determina la nostra salute mentale. Non avrei mai scoperto il valore antropologico della comunità, costituita da persone che mai casualmente si trovano a nascere, crescere e vivere sotto lo stesso cielo e nella stessa unità di tempo. Il valore della comunità di persone, il senso di appartenenza, l’essere con-temporanei ad altri essere umani sono aspetti che ti determinano, che contribuiscono, nel bene e nel male, a far  di te quello che sei.

L’appartenenza

Mentre facevo la spesa in un supermercato della zona, indossando dei pantaloni molto vistosi, colorati a grandi macchie, un compaesano, Niccola della Romana del Nicchio, che lavora in quel supermercato, mi apostrofa dicendomi “ti guardo i pantaloni, Antonié, sembri un fo’o di Sa’ Ranieri”.

Se mi riconosco come individuo è anche perché ho radici in un luogo della terra, ben caratterizzato, specifico, unico. Il “paesaggio umano” è uno dei motivi per cui valga la pena tornare a vivere nei luoghi che ti hanno visto nascere e che ti adottano. Una comunità che si stringe attorno ad un bisogno di uno dei suoi componenti è quello che io e la mia mamma abbiamo sperimentato in occasione della malattia e della lunga degenza a letto di mio padre.

Un paese, Molina, che per la sua particolare ubicazione, in mezzo a due città importanti storicamente, Pisa e Lucca, è crocevia, è luogo di passaggio di mercanti, di ambasciatori, di soldati, di contadini. Questo essere luogo di passaggio l’ha reso paese “aperto” a nuove realtà, paese “poroso” a nuove storie, come le rocce dei suoi monti. Un luogo poroso assorbe le vite e le storie e le restituisce, come il “calcare cavernoso”, nome delle rocce del monte molinese, fa con l’acqua. La assorbe dalle sorgenti naturali e la restituisce arricchita dei propri minerali. Molina di Quosa si sviluppa con una struttura urbanistica a forma di croce. Dal monte scende sino all’aperta campagna di Colognole e Patrignone e dalla ‘”barriera” il confine con Rigoli, sfocia nel “vialone di Pugnano”. Ogni braccio della croce possiede ed ha sempre avuto una sua fisionomia culturale ed anche un idioma suo proprio. Il molinese del piano si distingue da quello del monte, che parla e vive diversamente, perché la morfologia del territorio ha richiesto diversi strumenti di adattamento ed ha avuto differenti storie abitative e lavorative.

Gli anziani molinesi, tra cui la mia mamma Franca Roventini, i preziosi ‘testimoni del tempo” storico, culturale, sociale raccontano che in monte si parla, si mangia, si vive seguendo abitudini diverse. Ci sono inflessioni lucchesi nell’idioma. A Molina gli anziani omettono la doppia consonante ”r”. Terra diventa “tera” come nel gergo lucchese. La cucina dei “montanari” ha ricette sue proprie e una modalità sua di dosare gli ingredienti. Sembra strano osservare che, ai tempi della globalizzazione economica e culturale, un piccolo paese conservi ancora questo insieme di abitudini, dettate dalla fisionomia e dalla geografia del territorio.

L’eredità

L’insofferenza nei confronti del mio “relativo” terreno, rispetto ad un “assoluto cosmico”, per paradosso, ha contribuito alla formazione dell’attaccamento, del radicamento, senza il quale una persona rischia di vanificare la propria identità.

Massimo Recalcati, nel suo libro “Il complesso di Telemaco”, parla di “eredità” e afferma: “L’eredità non implica il ritrovamento di un’identità già fatta, di radici senza tempo, perché è un movimento che esorbita il familiare (…). Nell’ereditare sprofondo nel mio passato non per ritrovare le mie origini, ma per risalire, per emergere da esse. Questo sprofondamento non è un ritrovamento dell’identità della tradizione”. Prosegue affermando che i veri eredi sono coloro che non trovano i padri, ma che li perdono, dopo aver fatto propri “la possibilità del desiderio e le parole dell’Altro”, di cui i padri o chi c’era prima sono portatori.

Ecco il punto: senza le parole delle generazioni che mi hanno preceduto, senza l’essenza del loro desiderio, delle loro aspirazioni, credo che io, come animale culturale, non potrei essere quello che sento di essere. Ma questa riappropriazione è stata possibile grazie all’allontanamento temporaneo dai luoghi di nascita.

Il ritorno sull’acqua del Rio dei Molini

Vivo qui, in un posto che mi permette la “visione dall’alto”. Un punto di vista privilegiato. Il posto è bello ed è una riscoperta. Nel giardino della casa scorre il Rio, la cui voce accompagna i pensieri foschi e quelli lieti. Ogni luogo geografico possiede i suoi paesaggi, le proprie meraviglie, le proprie tessiture di relazioni sociali, ma i tuoi luoghi ti crescono dentro, li vivi sulla e con la pelle, li apprendi dalla lingua e dai racconti, non li leggi sui manuali di geografia o nelle guide turistiche. Il processo di adattamento, l’addomesticamento, come fenomeno che accorcia le distanze tra noi e l’esterno, è possibile solo qui e non in un altrove qualsiasi.

La morfologia, la geografia sarebbero niente senza la antropologia, senza la storia degli uomini e del loro passaggio su queste terre, dei loro sforzi per adattarsi e sopravvivere laddove la Natura rendeva la vita difficile, o dove la follia della guerra tendeva a distruggere vite e tradizioni. Nel giardino della casa c’è una grotta dove hanno trovato rifugio eremiti e chi cercava salvezza dalle guerre. L’acqua parla e potendola ascoltare racconta molto di più delle parole; diventa corpo, si fa cantore di storie antiche e nuove. Nella grotta c’è silenzio. Potrò innamorarmi di altri luoghi, potrò riascoltare il richiamo dell’”inquieto vento del sud”, che mi sussurrerà di sfuggire dalle angustie del già noto, ma niente potrà cancellare l’esperienza di questo ritorno. A casa.

di Antonietta Timpano

Molina di Quosa

Non mi considero un grande viaggiatore, però, tutto sommato, in settanta anni di vita ho vissuto un po’ qua e un po’ là. Adesso abito a Molina Alta (in monte), Molina di Quosa, San Giuliano Terme e mi piacerebbe tentare qualche piccolo confronto.

Ad esempio l’anno scorso, per ragioni di lavoro, ho passato un lungo week-end in Cina a Beijing. Ingenuamente pensavo che la vita lì scorresse sulle ruote delle biciclette, invece ho visto più Ferrari che biciclette. A Pisa ci sono tante biciclette e non ci sono Ferrari. Penso che andremo più lontani… così.

A New York ho vissuto e lavorato per un po’ di tempo. Ho visto in azione i “cervelli” di Wall Street. Ho visto anche il denaro che accompagna immancabilmente i “cervelli”. Camminando per le strade di Pisa, lavorando con studenti e professori delle tre università, di cervelli ne posso incontrare. Il bello di Pisa è che i cervelli sono senza denaro (o apparentemente) e penso che viviamo meglio… così.

Sono londinese. A Londra la cultura la abbiamo e ci teniamo a dimostrarlo. La nostra storia, la nostra famiglia reale, i loro palazzi e castelli, i loro gioielli, gli splendidi musei, li mettiamo in bella mostra. A Pisa mi sembra che non ci sia bisogno di questa ostentazione. A Pisa si respira la storia ad ogni angolo. La definerei “culture without glitter”, cultura senza sfarzo ed io mi trovo meglio… così.

Ho vissuto molto a Livorno. Magari vi viene da ridere. Per me Livorno è come se si trovasse dall’altro lato dell’oceano, tanto è diversa da Pisa. Quasi quasi sento più vicine a Pisa le città come Durham e Cambridge, dove ho studiato, che non Livorno dove ho vissuto per anni davanti al mare. A Pisa c’è la “Piazza dei Miracoli”. Incomparabile. A Livorno c’è il mare. È soltanto con il mare che posso azzardare un confronto, nel senso che se chiudo gli occhi cosa vorrei vedere quando li riapro? Il mare di Livorno o la Piazza dei Miracoli? Vince il mare, la terrazza Mascagni, i “Bagni Pancaldi”, ma… di poco. D’altronde la Piazza dei Miracoli l’avete creata voi; il mare i livornesi ce l’hanno trovato… così.

Un vero viaggio l’ho fatto mezzo secolo fa. Sono andato in Africa, in Sierra Leone. Lì ho vissuto per tre anni in un grande villaggio, nascosto nella giungla. Bello. Un’utopia. Una innocenza! Lì la vita si basava sul “qui e ora”, senza storia. La storia senza dubbio c’era, ma nascosta tra i balli e i riti tribali della notte. La vita normale scorreva “un giorno alla volta”. Un piatto di riso condito con una minuscola quantità di salsa di pesce, così piccante da togliere il fiato, un sorriso timido, un saluto di buona notte e ci si ritira ognuno dentro il proprio alloggio di fortuna. A Molina dove abito, la casa sotto il mio balcone ha più di mille anni. Le tradizioni e la storia sono ovunque nell’aria. Si sentono i “passi del passato” e penso che sia importante sentire la presenza di questi mille anni di storia.

Ho dimenticato di dirvi che in Africa ero un insegnante. Quasi tutti i miei studenti sono morti, alcuni in modo atroce durante la guerra civile che è scoppiata poco dopo. Quell’innocenza è stata distrutta. In piccola parte noi insegnanti dobbiamo accettare una responsabilità per tutto questo… così.

Mi piace da morire Parigi. Non ho mai vissuto lì, ma una volta, tanto tempo fa , lì avevo un’amante (e dove si deve avere un’amante se non a Parigi?). A Parigi la vita si svolge nei “café” che si trovano ad ogni angolo.  A Pisa c’è il bar Centro. Non so se lo conoscete. È al centro, in Piazza Garibaldi, vicino al Ponte di Mezzo. Sedersi al tavolino lì, sotto la loggia per bere un caffè, leggere “Il Tirreno”, osservare la gente, costa sempre e soltanto un euro, il prezzo del caffè. Al bar Centro mi conoscono “Buongiorno professore, il solito macchiato?”. Non sono un viaggiatore e nemmeno un professore ma un saluto… così… ti rende felice.

di John Ayers

La fotografia non può catturare queste sensazioni, non può mostrale a chi non le ha provate. Ma può funzionare come stimolo per la memoria, per le memorie che possono forse dialogar tra loro, uno stimolo impoverito dall’assenza del soggetto ma arricchito dalla potenziale capacità della fotografia di andare oltre il visibile, oltre la cornice.

massimocec febbraio 2012