Giro intorno al Monviso

Foto tratta da A. Parodi “Intorno al Monviso” 2016

GALLERIA

Da la Repubblica del 10 settembre 2021: Anche ai piedi del Monviso scarseggia l’acqua, così il rifugio Quintino Sella chiude in anticipo: non era mai successo prima. Lo annunciano i gestori: “Le riserve invernali si sono esaurite presto. Chiudiamo in anticipo perché siamo senz’acqua. Con il Re (il Re di pietra cioè il Monviso, ndr) nel cuore e negli occhi, un saluto a tutto il popolo della montagna”.

Una notizia che costituisce un ulteriore colpo basso insieme ad un’altra del 14 settembre “Il ghiacciaio del Gran Paradiso è l’area delle Alpi che ha subito un maggiore arretramento dei ghiacci, ha perso circa il 65 per cento della sua superficie in 120 anni”, spiega Marco Giardino, segretario del Comitato glaciologico Italiano. Viviamo in una stagione molto difficile.  Sembra di camminare su un crinale immerso nella nebbia tanto che pochi se ne rendono conto. È difficile in questo periodo liberarsi dal senso di oppressione che ci avvolge. Il riscaldamento climatico e i rischi che il pianeta sta correndo si affiancano alla grande paura del virus, del covid. Sono però due situazioni diverse perché una legata alle azioni dell’uomo, l’altra legata invece alle logiche della natura indifferenti nei confronti degli esseri umani. Anche per quanto riguarda gli effetti le due situazioni appaiono diverse. Per le conseguenze del riscaldamento è inevitabile che, se non ci sarà qualche inatteso aiuto dalla tecnologia, dovremmo passare sotto il giogo del senso di colpa e del ravvedimento rispetto ai nostri comportamenti. Nei confronti della pandemia è illogico pensare a sensi di colpa o a ravvedimenti. Si può solo auspicare una maggiore consapevolezza della nostra fragilità e un ricorso a ciò che ci può aiutare, oltre alla scienza e alla medicina, a sopravvivere in tale condizione, al ricorso al rafforzamento dei legami tra noi e alle risorse interne di cui disponiamo. Ad esempio, la pandemia ci ha rinchiusi nelle nostre case, ci ha isolati ma ci ha anche costretti a riprendere i contatti con la memoria per non perdere i contatti con il mondo. La memoria è forse diventata una risorsa per tentare di uscire da questo accerchiamento, sempre che non si faccia invischiare dalle spire della nostalgia.

Qualcuno, affetto da una sorta di strabismo, dirà che non è la pandemia che ci ha costretto a rinchiuderci ma il malvagio disegno di chi ci governa o addirittura la volontà di un ristretto gruppo capace di ordire spietati complotti contro l’umanità. Sono opinioni che non dovrebbero neppure essere prese in considerazione vista l’evidenza dei fatti, la quantità dei morti, le sofferenze che questo virus ha inflitto all’umanità se non per il fatto che purtroppo opinioni del genere fanno breccia, si diffondono e hanno delle conseguenze, ostacolano la lotta contro il nemico reale anche se invisibile e subdolo, un virus che semplicemente fa quello per cui è stato creato, sopravvivere infettando e utilizzando le cellule delle persone infettate per replicarsi. È un nemico quindi soltanto per noi, per gli esseri umani e per quegli animali che, come gli esseri umani, possono essere infettati, non è neppure un castigo o una reazione della natura all’aggressività dell’uomo. È soltanto l’Essere che si fa vivo e ci ricorda la nostra fragilità, la sua alterità, la sua indifferenza rispetto alle aspettative e ai desideri dell’uomo.

Per noi è comunque un nemico che non soltanto ci ha procurato ferite fisiche ma anche inciso profondamente sulla nostra psiche, la nostra vita interiore. Credo che l’effetto più immediato sia stato quello di renderci più ansiosi, più guardinghi, meno disponibili al rapporto con gli altri. Ha insinuato in noi la paura nei confronti dei nostri figli, dei nostri nipoti, del vicino, del collega. Il covid ci ha gettati all’interno di un innaturale stato d’animo contorto, pericoloso, quasi disumano nei suoi effetti anche se pienamente umano nelle sue ragioni. Ci ha anche allontanato dal rapporto con il mondo fuori di noi, con la natura, con il bisogno di muoversi, di guardare non lo schermo del PC o del televisore ma i prati, gli alberi, le montagne, il mare per non parlare della gente, delle folle, del pubblico dei cinema, dei teatri, degli stadi. Ricordo ancora la paura di uscire al termine della prima clausura, quella più dura, il tempo che ci è voluto per tornare ad ambientarsi con il mondo esterno, con gli altri che ci passavano accanto, che ritornavano a venirci a trovare, che andavamo a trovare.

La pandemia ci ha messo di fronte alla nostra fragilità. Noi che avevamo pensato di aver quasi sconfitto il tempo semplicemente occultando la malattia e la morte, adesso ci troviamo di fronte al problema di come affrontare questa fragilità che è riemersa nella sua enorme potenza. Alcuni semplicemente continuano a negare l’evidenza, a pensare che non sia accaduto niente, oppure che la fragilità non sia un elemento costitutivo della nostra esistenza ma che dipenda dalla volontà di qualche altro, di un nemico contro cui si può combattere manifestando, urlando, prendendo a calci le cose e le persone, minacciando, offendendo. Eppure la pandemia ci dice cose diverse, ci dice che siamo esseri estremamente fragili, che camminiamo continuamente sull’orlo di un baratro con un equilibrio precario, che la nostra maggiore fatica è quella di mantenere in piedi questo equilibri precario per il maggior tempo possibile sapendo comunque che prima o poi inciamperemo e cadremo. Pretendiamo certezze dove certezze non possono esserci. Vorremmo risposte che nessuno ha, mentre semplicemente dobbiamo prendere atto che questa è la vita umana, che le risorse che abbiamo per affrontarla sono poche, alcune provengono dalla conoscenza, dalla scienza, come le cure, i vaccini, le misure protettive, altre dobbiamo cercarle dentro di noi. E la scienza, anche se talvolta ci sembra protetta da un massiccio baluardo di certezze e verità, ha un suo ritmo che procede con cautela, sulla base di spinte e controspinte.

Qualcuno come il filosofo Galimberti, dice che siamo vittime dell’individualismo, delle conseguenze della rivoluzione culturale introdotta dal cristianesimo che ha collocato la salvezza nella sfera individuale e ha cancellato la priorità del “noi”, della comunità, una priorità che era propria della cultura del mondo greco. Non credo neppure che questa sia una visione accettabile della situazione in cui viviamo. Dietro il richiamo alla priorità del noi c’è un equivoco perché non esiste un “noi” neutro, una comunità talmente coinvolgente da includere tutti. Dietro ogni “noi” c’è un gruppo che detiene un potere e questo potere può essere arginato solo se il “noi” ha di fronte degli individui consapevoli della propria dignità, della dignità della propria esistenza, capaci di costruire dei “noi” alternativi e dialoganti. Il rapporto “io” –“noi” è un rapporto che ha bisogno di un costante esercizio che mantenga in equilibrio una relazione che di per sé è instabile. L’”io” ha bisogno del “noi” quanto il “noi” ha bisogno dell’”io” e la pandemia semplicemente rende evidente ciò: nessuno può salvarsi da solo e quindi è necessario accettare anche limitazioni della nostra libertà perché una libertà senza limiti è semplicemente la predisposizione di un’arena dove può vincere solo il più forte ma la comunità deve anche riconoscere la dignità degli individui che la costituiscono perché altrimenti prendono il sopravvento ragionamenti come “è accettabile una certa quantità di morti”, “si possono sacrificare deboli per salvare l’economia” e così via e possono diventare “fatti accettabili” le colonne di camion carichi di morti che abbiamo visto durante la prima fase della pandemia in Lombardia o le fosse comuni in altri paesi. Dobbiamo quindi, oltre che affidarsi alla scienza e ai vaccini, rafforzare le nostre risorse contro il groviglio contorto in cui ci ha gettato la pandemia, risorse riguardano la nostra sfera emotiva, la nostra capacità di ragionare, la nostra memoria, tutti elementi che dobbiamo far interagire affinché nessuno di essi prenda il sopravvento.

Tra tutti questi elementi, le emozioni, la ragione, la memoria, quello che sembra forse più fuori luogo è la memoria. Che cosa c’entra la memoria con la nostra fragilità, con la pandemia, con le nostre emozioni, con la nostra capacità di ragionare, di riflettere, di prendere decisioni? L’isolamento ci ha costretti, per non perdere del tutto i contatti con il mondo, oltre a potenziare le relazioni con i computer, gli smartphone, i televisori, a fare ricorso alle risorse della memoria, a quell’insieme di detriti, come li chiama Tabucchi, che talvolta con fatica riusciamo a recuperare e a mettere in fila. Credo che la memoria quindi giochi un ruolo importante perché è forse lo strumento che ci consente di tenere insieme i tanti aspetti della nostra vita che di per sé sono slegati, attimi vissuti uno dietro l’altro e subito regrediti allo stato di passato. Il presente è una sorta di lama finissima che taglia continuamente il tempo; ogni istante che viviamo, nel momento in cui lo viviamo, è già passato, il futuro non esiste se non come possibilità, soltanto il passato ha quindi consistenza e durata, solo che, in quanto passato, non esiste più se non come ricordo, e il destino dei ricordi è quello di disperdersi, di trasformarsi in detriti che si mescolano, si confondono, si affievoliscono. Spetta alla memoria recuperali, metterli in fila, garantirci un’identità che sarà anch’essa fragile, molteplice, contraddittoria, bisognosa del soccorso degli altri, del confronto con gli altri, dell’aiuto fornito dalle tracce lasciate dal tempo negli oggetti, nelle cose ma sarà la base dell’io, di quell’io necessario affinché il “noi” possa svolgere il suo ruolo aggregante e la sua funzione di limite per un io che lasciato a se stesso tende a ingigantirsi fino a occupare tutto lo spazio possibile e a soffocare gli altri io che ci circondano.

Dobbiamo quindi abituarci ad esercitare la memoria, a tenerla attiva, a fare in modo che i detriti possono aiutarci a muoverci nel presente, nelle difficoltà del presente, a non farci sopraffare dalla paura, dalla diffidenza senza neppure però spingerci ad andare oltre quei limiti che possono garantire un minimo di sicurezza a noi e agli altri. In questi mesi i detriti della memoria mi hanno fatto compagnia, mi hanno consentito di mantenere vivi i legami con le persone che non potevo vedere, con i luoghi dove non potevo andare: ho ripercorso viaggi, ho rivisto mentalmente, oltre che in fotografia, amici talvolta dimenticati, ho recuperato eventi che avevo sepolto, ho ravvivato emozioni e sentimenti cercando di non cadere nella nostalgia, nel rimpianto di un passato che non esiste più e che non può tornare, cercando invece di rivivere in qualche modo quel passato, guardando le foto, comunicando con gli amici che di quel passato erano i protagonisti, seguendo le loro chat.

Nel ripercorrere i viaggi con la memoria, con l’aiuto dei ricordi, delle fotografie, dei ricordi degli amici, mi sono imbattuto in un viaggio che avevo messo in un angolo della memoria, nascosto, un detrito che la  notizia della chiusura del rifugio Quintino Sella ai piedi del Monviso ha riportato alla luce. Era un viaggio che per le sue caratteristiche e per il mio amore per la montagna forse non meritava quella collocazione nel buio dei ricordi dimenticati perché è stata senza dubbio la mia “impresa alpinistica” più importante, il giro intorno al Monviso compiuto forse nell’arco di una settimana, un viaggio che risale a quasi quarant’anni fa, del quale rimangono nella mia mente solo frammenti, immagini slegate dai contorni indefiniti. In quel periodo rifiutavo di fare fotografie, non c’era, come spesso non c’è nei giovani, la sensazione dell’importanza della memoria e delle tracce che possiamo lasciare e che possono aiutarci a ravvivarla, non c’era neppure, per fortuna, l’assurda mania contemporanea di fotografare tutto, di produrre una quantità non gestibile di immagini destinate all’oblio tanto quanto la semplice assenza di esse e poi di dimenticarle. La lettura dell’articolo sulla chiusura del rifugio, oltre a ravvivare gli stati d’animo preoccupati per lo stato di salute del pianeta e per ciò che lasceremo ai nostri nipoti, ha messo in moto il motore interiore della memoria o, per dirla con Montale, la carrucola è tornata a cigolare.

Per aiutare la memoria sono ricorso alle fotografie di altri, alle fotografie che si trovano su internet tramite Google, ma non mi sono state di grande aiuto: sono rimaste fredde immagini che non mi dicevano niente, che non mi aiutavano a dare risposte al bisogno di recuperare quel viaggio, le emozioni che in qualche modo riuscivo a intravedere in quella sorta di nebbia che copriva gran parte dei detriti della memoria. Nello stesso tempo sentivo il bisogno di ricordare ma non potevo neppure ricorrere all’aiuto degli amici. Era stato uno strano viaggio, forse l’unico viaggio con persone quasi sconosciute. Tra i ricordi che dalla nebbia riuscivano ad emergere c’era infatti una strana sensazione di solitudine, quasi di disagio legato proprio all’assenza di amici, di persone conosciute. Anche i ricordi visivi erano isolati, come suoni senza una melodia che li tenga uniti. Sono ricorso allora ad uno di quei libri con illustrazioni che illustrano percorsi di montagna  (Andrea Parodi Intorno al Monviso) e lì ho trovato qualche aiuto, qualche foto di rifugi (che ho inserito nella galleria), qualche nome come Crissolo, Pian del Re, oltra naturalmente a quello del rifugio Rifugio Quintino Sella, qualche storia che avevo già sentito o letto come quella del partigiano Jervis, valdese, morto fucilato dai tedeschi, cui era stato dedicato un rifugio nel Val Pellice. Ma il viaggio è rimasto in gran parte  nascosto. Sono emersi solo frammenti. Ricordo il viaggio in treno, l’arrivo in un paese, forse proprio Crissolo, punto di partenza del nostro itinerario alpino, una fontana e i preparativi per iniziare il cammino, l’allacciarsi degli scarponi, la sistemazione degli zaini e l’avvio della marcia. Ricordo ancora il primo rifugio, forse Pian del Re. Ricordo che tra noi c’era una sorta di guida ma forse è più giusto definirlo accompagnatore, un signore anziano, taciturno, che in quelle zone che conosceva palmo a palmo aveva fatto la guerra, la Seconda Guerra Mondiale, combattendo contro i francesi. Percorreva i sentieri col suo passo ritmato, uniforme mentre noi gli saltellavamo d’intorno, lo superavamo, ci allontanavamo dai sentieri per andare a esplorare qua e là non so che cosa, forse a bagnarci nei laghetti che si vedono nelle fotografie che ho recuperato, a sederci sulle loro sponde, a trastullarci. A sera però, e questo lo ricordo bene invece, era sempre lui ad arrivare per primo senza mostrare i segni della fatica, ripetendo sempre gli stessi gesti del togliersi lo zaino, dello slaccirsi gli scarponi, del sedersi ad un tavolo del rifugio, regalandoci anche qualche racconto del suo passato, delle sue storie.

Ricordo poi i risvegli la mattina presto con le partenze dai rifugi, accompagnati dai richiami delle marmotte che ci sorvegliavano da lontano comunicandosi il fastidio per la nostra presenza che interrompeva il loro tran tran quotidiano. Ricordo, e questa è forse l’immagine più nitida accanto a quella della nostra guida, anche l’incontro con alcuni pastori, l’accoglienza nella loro capanna buia o, come chiamano qui le dimore temporanee dei pastori, nella loro grange, la bevuta di latte fresco e le paure successivamente instillate dalle giuste osservazioni salutistiche di qualche componente del gruppo.

Ricordo ancora che durante il viaggio superammo il confine ed entrammo in Francia, nel Queyras. Non ricordo il paesaggio ma, non so perché, ricordo di aver avvertito una sorta di sensazione fisica che mi diceva di essere in un paese straniero. A sera cenammo in un rifugio francese di cui non ricordo il nome dove forse per la prima volta ho assaggiato il couscous. Lo ricordo perché per molto tempo mi è rimasta impressa questa stranezza, l’aver incontrato questo cibo, che associo al mare, in un rifugio montano e non dove sembra più facile trovarlo laddove in quegli anni erano presenti le prime comunità che l’hanno importato e lo utilizzano come alimento identitario, in una qualche località marina o in una grande città.

Ricordo poi che ad un certo punto dovemmo attraversare un passaggio per me difficile e l’aiuto fornitomi dai miei compagni, in particolare da parte di una ragazza che mi aveva ospitato la sera prima della partenza con il treno. Non ho più rivisto quelle persone, tranne la ragazza che mi aveva ospitato e con la quale ho fatto un breve viaggio in Maremma. Non ricordo neppure i loro nomi e i loro volti. Eppure non li ho dimenticati. Rimangono presenze anonime ma vitali. I compagni della “mia grande impresa alpinistica”, anche se per loro, provetti arrampicatori, forse è stato uno dei tanti giri con la presenza occasionale di uno sconosciuto di cui non ricorderanno non dico il nome ma neppure il volto.

Il nostro non fu un vero e proprio giro perché rientrammo, senza concludere l’anello, passando per Val Pellice e il rifugio Jervis del quale ho rintracciato qualche foto ma non ho recuperato l’immagine visiva nella memoria. Ricordo la fase finale del viaggio perché forse uno dei motivi che mi avevano spinto ad accodarmi al gruppo era stato proprio quello di poter visitare i luoghi dei valdesi verso i quali nutrivo una profonda ammirazione come propugnatori di una visione religiosa che si legava a principi etici e laici, ad un impegno politico costante dal Risorgimento alla Resistenza, di cui testimone era proprio quel Jervis, partigiano fucilato dai tedeschi, al quale era dedicato l’ultimo rifugio in cui pernottammo durante il nostro giro, a valori quali la solidarietà, la giustizia, al ripudio del lusso e dello sfarzo, all’accettazione di posizioni progressiste nel campo dei diritti. Ricordo anche che rimasi però un po’ deluso da ciò che trovai nel paese in cui arrivammo al termine del giro, di cui non ricordo il nome, per prendere il pullman del rientro, forse perché mi aspettavo di poter immediatamente riconoscere negli elementi visibili di quel luogo la dimensione culturale e spirituale, come se essa potesse penetrare nelle case, nelle strade quando non può che essere nelle persone. È forse questo l’inganno che si cela dietro tanto turismo di massa e che viene utilizzato dai venditori di viaggi organizzati, l’idea che ciò che caratterizza culturalmente un posto possa congelarsi nelle cose e non nelle persone. Trovai solo una piccola libreria con dei testi. Non ricordo se ne acquistai qualcuno, nella mia libreria non ce ne sono.

Ma che c’entra tutto questo con il ruolo della memoria nel contrastare gli effetti devastanti della pandemia e con la necessità di ravvedimenti nei confronti del cambiamento climatico che stiamo provocando. Spesso si evoca la memoria come monito per evitare che le cose accadano di nuovo. Più raro è pensare alla memoria come serbatoio di ricordi di momenti piacevoli, di momenti felici che abbiamo vissuto e che da un lato costituiscono la base del nostro io e dall’altro che dobbiamo consentire di vivere a chi verrà dopo di noi. Nel nostro passato non ci sono soltanto le tragedie anche se queste spesso manifestano la tendenza a occupare la maggior parte degli spazi che la memoria ci mette a disposizione. Ricordare è un po’ rivivere e rivivere può essere una risorsa per noi e per le nostre scelte  in un momento come questo che forse lascerà come traccia immagini e sensazioni tremende, l’omelia solitaria del Papa in una piazza San Pietro deserta e piovigginosa, l’urlo delle sirene, i bollettini di guerra serali che giornalmente ci informavano sul numero dei morti, degli ospedalizzati, dei caduti sotto le armi apparentemente invincibili del virus, sui danni provocati dagli effetti dei cambiamenti climatici.

massimocec settembre 2021