Cento anni fa a Livorno

Adattata da una foto di un Comizio elettorale di Lugi Berlinguer del 1975 in occasione delle elezioni amministrative a Pisa (Giardino Scotto)

CENTO ANNI FA A LIVORNO: TESTO INTEGRATO DA FOTO D’EPOCA

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Un anniversario così rotondo, cent’anni, è un forte richiamo a cui non ci si può sottrarre. Sui social gira il simbolo del Pci. Sono usciti una decina di libri, altri ne usciranno ed è stato messo a disposizione un documentario ritrovato da Cecilia Mangini e restaurato dalla Cineteca di Bologna che costituisce il primo documento cinematografico di un importante evento politico.

Ancor oggi rimangono aperte questioni fondamentali. Fu un errore la scissione? Chi aveva ragione tra Turati e Bordiga? La scissione aprì la strada al fascismo? Non è facile trovare risposte che forse neppure esistono come spesso accade per eventi del genere. Oggi non esistono più né il Partito socialista né quello comunista. Sorprende il silenzio che è seguito alla scomparsa di questi partiti, un silenzio che somiglia quasi ad un tentativo di rimozione. Ma che cosa c’è da rimuovere, un senso di colpa? Un dolore per l’abbandono? Forse è il momento di intraprendere quella che può definirsi una terapia per la sinistra, una riapertura di dialogo con il proprio passato per poter tornare a indagare anche la propria identità.

In questo anniversario in cui finalmente la barriera di silenzio inizia a sciogliersi tende a prevalere la tesi che quella lontana scissione di Livorno sia stata un errore, addirittura c’è chi sostiene che in qualche modo rese più facile l’ascesa al potere del fascismo. Ma è anche vero che, senza quella svolta rivoluzionaria, non avremmo avuto quel soggetto politico fondamentale che il Partito comunista italiano con il tricolore nel simbolo ha rappresentato per la Repubblica nata dalla Resistenza, né quella delle famiglie politiche che al comunismo si richiamano cercando di arricchire e rifondare quella storia. Se pur il Partito Comunista italiano non ci sia più da trenta anni, sembra quindi che stia prevalendo una sorta di senso di rivincita nei confronti dei fondatori del Partito Comunista d’Italia, sezione italiana della Terza Internazionale, denominazione che in quel momento faceva pensare a un’enclave dell’Internazionale Comunista, nata a Mosca nel 1919. La storia di questo partito è complessa e le caratteristiche della sua genesi possono dare spazio a interpretazioni viziate da pregiudizi ideologici che non tengono conto dell’evoluzione e delle fasi che hanno contraddistinto la storia del Partito comunista e delle dinamiche fra le varie componenti, in particolare quella tra gruppi dirigenti e militanti di base. Quel gruppo iniziale diventerà un’organizzazione clandestina durante il Ventennio e nel secondo dopoguerra il Partito comunista diventerà il Partito comunista italiano, un partito di massa. Forse, quel primo nucleo di comunisti guidati da Bordiga si sentiva effettivamente una sorta di sezione del Partito comunista internazionale, tant’è vero che il primo nome dato al partito è quello di Partito Comunista d’Italia, quasi a sottolineare la natura di sezione del partito uscito dal congresso di Livorno rispetto ad un partito internazionale, ma è solo l’inizio di una storia che durerà settanta anni, fino al 1991, anno in cui, tra lacrime e rimpianti, aspettative e delusioni, morirà il Partito comunista italiano e nascerà il Partito Democratico della Sinistra.

Bordiga, infatti, ben presto verrà messo in disparte e il ruolo egemonico all’interno del nuovo partito verrà assunto dal gruppo torinese dell’Ordine Nuovo. Nello stesso tempo, a partire dal ’25, il partito verrà messo fuori legge da Mussolini, insieme a tutti gli altri partiti italiani, e la lotta politica diventerà una lotta clandestina. Sono gli anni in cui i militanti diventano rivoluzionari clandestini di professione, in cui si costituisce una rete ristretta e organizzata di militanza estesa non solo in Italia ma anche all’estero, sotto la guida dei comunisti fuggiti in Unione Sovietica. Sono gli anni in cui i militanti si formano leggendo libri come Il tallone di ferro di Jack London o La madre di Gorkij, libri che svolgono sia il ruolo di strumenti di formazione politica che quello di stimoli per una formazione culturale e morale. Basta leggere le autobiografie di questi militanti: Roasio, Germanetto, Teresa Noce, Robotti, Leonetti, Ferrero e altri per cogliere l’importanza di questi testi e per capire quali ideali e quali valori spingevano questi uomini e queste donne a compiere scelte così difficili e pericolose. Sono militanti che si identificano con i protagonisti dei due romanzi e passeranno anche attraverso l’esperienza della lotta armata, della resistenza combattuta e che sentiranno il bisogno di raccontare la loro storia dando vita ad una memorialistica che aveva pochi riscontri nella vita degli altri partiti.

Contemporaneamente, a livello di strategia politica, Gramsci dal carcere elabora il suo concetto di egemonia, che avrà alla sua base la strategia delle alleanze e del consenso e che costituirà il punto di riferimento fondamentale per le scelte politiche successive alla caduta del fascismo nel ’43, per la svolta di Salerno e per la costituzione di un governo con gli altri partiti antifascisti, e poi per il passaggio dal partito clandestino al partito di massa che arriverà a conquistare, a metà degli anni ’70, il 34% dei voti. Certo il nuovo partito non riesce a liberarsi del tutto da alcuni peccati originari, primo tra tutti la propensione per le divisioni, per le condanne di chi la pensa in modo diverso, ancor più se tale diversità ha origine all’interno dello stesso nucleo ideale. Secondo peccato, il cordone ombelicale che lo legherà con l’Unione Sovietica e che lo coinvolgerà nel crollo del comunismo alla fine degli anni Ottanta. Sono peccati che avranno un peso anche nella realizzazione di quel progetto nato dal nuovo partito del secondo dopoguerra. Verrà a manifestarsi una sorta di doppia anima del Pci: la prima volta a difesa della democrazia e l’altra legata al mito dell’Unione Sovietica; una doppia anima che determinerà l’incapacità di dare risposte a eventi come quelli dell’Ungheria del ’56 o della Cecoslovacchia del ’68, l’intolleranza verso il dissenso interno che porterà a chiusure, espulsioni e radiazioni come quelle dei promotori della rivista il manifesto nel ‘69, o il ritardo nel cogliere le novità nel mondo della cultura, dell’arte, della società come accadrà nei confronti del mondo artistico e letterario già negli anni Cinquanta e poi di quello giovanile a partire dalla fine degli anni Sessanta.

Sono peccati che determineranno anche l’ambiguità dell’interpretazione del concetto di egemonia, sempre in bilico tra consenso e controllo. Recentemente è uscita una riedizione di un testo del 2007 di Mauro Boarelli, La fabbrica del passato, in cui vengono analizzate le autobiografie che i militanti comunisti emiliani erano chiamati a scrivere dai funzionari del partito nell’immediato dopoguerra. A differenza delle memorie, questi sono testi scritti su invito esplicito da parte dei funzionari di partito, tanto che Carlo Ginzburg, autore della prefazione al testo, parla di queste autobiografie come di “una confessione pubblica, poi trasformata in un’autobiografia scritta, spesso puntigliosamente annotata dai funzionari che l’avevano proposta.” È una pratica che ha radici lontane. Sempre Carlo Ginzburg annota: “Il rituale della confessione pubblica in vigore nella chiesa ortodossa ispirò, com’è stato notato, la pratica delle autobiografie richieste ai militanti in Unione Sovietica. Nel caso italiano, sottolinea Boarelli, questo modello si è intrecciato a una tradizione gesuitica.” Emergono due aspetti: il primo, quello della lettura dell’egemonia da parte del nuovo partito come controllo, come trasmissione di schemi ideologici prefabbricati; il secondo, la presenza di anticorpi nei confronti di quel tipo di controllo legati all’educazione ricevuta, alle esperienze vissute, al proprio carattere o ereditati forse anche dalla lettura delle stesse opere che avevano influenzato i militanti clandestini degli anni Trenta, Il tallone di ferro, La madre che frequentemente ritornano nelle autobiografie come fonti di ispirazione ideale e politica. Ne emerge però anche un’interpretazione messianica e millenaristica della storia da parte dei militanti che lega la loro cultura ad un possibile substrato religioso profondo trasferito sul mito della Russia e di Stalin, che daranno vita a una contraddizione  irrisolta con la parallela affermazione dell’accettazione del modello della democrazia liberale. Inoltre non è possibile tacere sul fatto che, come riconoscono Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro testo Il vento della rivoluzione, che  “il comunismo è stato un ideale. Qualcosa cioè di sfuggente e confuso, variabile da persona a persona, ma proprio per questo molto potente. Ancor più potente perché si mescola a sentimenti atavici e universali come l’uguaglianza, la giustizia, l’amore per il prossimo, la ricerca della felicità”. E un ideale è appunto un elemento che sfugge ad ogni rigida definizione ma che ha uno scopo preciso, come argomenta Simona Chiodo nel suo testo Che cos’è un ideale, lo scopo di delimitare una distanza rispetto alla realtà e di spingere al miglioramento di questa. La contraddizione nasce dal confondere l’ideale con un elemento della realtà, con qualcosa di storicamente definito. Un ideale è irraggiungibile, perché, una volta raggiunto non sarebbe più un ideale, uno sprone al miglioramento. 

Il testo di Boarelli pone anche un problema irrisolto, quello del rapporto tra gruppi dirigenti e militanti, un problema ignorato dalla storiografia del Partito comunista concentrata, come del resto si prefiggeva esplicitamente Paolo Spriano con la sua monumentale storia del Pci, sulle vicende dei soli gruppi dirigenti. Ricostruire tale storia significa riuscire a comprendere che cosa è stato il Partito comunista per un’enorme quantità di militanti legati non solo razionalmente al loro partito, ma spinti verso tale soggetto anche da sentimenti di identificazione e di appartenenza che costituiscono elementi fondanti dell’identità comunista all’interno delle varie componenti del PCI. Sarebbe utile indagare quale rapporto si è creato tra i gruppi dirigenti e la base in un’epoca in cui il Partito è una sorta di filtro delle informazioni e di agente produttore di idee, una sorta di “intellettuale collettivo” impegnato a ridurre via via la distanza tra dirigenti e diretti (Luciana Castellina, Il Partito-Paese, e le riserve inesplorate del genoma Gramsci in “Profondo rosso” inserto de il manifesto, 21 gennaio 2021), idee che comunque vengono accolte non in modo passivo dai militanti. Senza la storia di questi militanti, però, diventa difficile comprendere la complessità e la contraddittorietà di tanti aspetti della vicenda settantennale del Partito comunista, del suo ruolo all’interno della vicende della Repubblica, nella costruzione di un’etica pubblica che in parte ha supplito alla mancanza, in un paese in cui hanno prevalso il familismo e le pratiche clientelari, del senso dello stato quando si sono manifestate le minacce di colpi di stato, dei terrorismi di destra e di sinistra. Tale indagine sarebbe utile anche per dare un’interpretazione della rapida dissoluzione del partito e del silenzio che ne è seguito una volta crollato il mito della Russia. Certo, a ben guardare la storia del Pci, non è strano che siano escluse dalla sua memoria proprio le masse perché in fondo il centralismo è stato uno dei caratteri connotativi del partito. Anche la sua fine è stata contraddistinta da decisioni centralistiche prese dai dirigenti. Ma, nonostante tutto ciò, nonostante tutte le contraddizioni che hanno connotato la storia dei partiti di massa del dopoguerra, oggi si percepisce l’assenza di un soggetto politico quale il partito, o meglio i partiti, in un’epoca in cui la rete e i social hanno preso il posto della dialettica partecipativa e il caos delle informazioni esonda sopra ogni possibile argine. Al di là di ogni demonizzazione o esaltazione del Partito comunista, con questo minuscolo contributo vorremmo tentare di riaffermare l’importanza della memoria e della sua ricostruzione storica per la comprensione del presente, una memoria che non si basi sulla cancellazione dei momenti critici, sul ruolo passivo dei militanti, sull’oblio delle contraddizioni e delle questioni irrisolte, a partire da quella fondamentale per la sinistra, la conciliazione tra una visione millenaristica della fine della storia, del sol dell’avvenire che una volta sorto non dovrebbe mai tramontare, grazie allo scioglimento della volontà generale delle maggioranze dissolte, come diceva Rousseau, nella volontà dei soggetti portatori delle istanze universali e l’accettazione delle differenze, del dissenso, del conflitto come motore instancabile della società.

Abbiamo cercato di ricostruire, in forma narrativa, quelle giornate dal 15 al 21 gennaio 1921 a Livorno utilizzando un po’ l’immaginazione, un po’ di più le fotografie d’epoca, difficili da reperire, ma soprattutto quel filmato citato all’inizio, donato da Cecilia Mangini alla Cineteca di Bologna, che ci fa rivedere in modo più vivo quella vicenda. È un filmato che risente della tecnologia disponibile a quel tempo, girato con una pellicola poco sensibile che rende piuttosto scure le poche immagini riprese nell’interno; ma è, senza dubbio, un importante documento storico che, affiancato ad altri documenti, può costituire la base da cui partire per tentare di far rivivere quel momento della storia d’Italia.

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odellac e massimocec gennaio 2021

PS massimocec: La vicenda del PCI è stata per me anche una vicenda familiare, uno scontro generazionale. Mio padre, operaio alla Saint Gobain di Pisa, militante comunista fin dal ’46, figlio di un operaio anche lui della Saint Gobain e militante socialista bastonato dai fascisti, ha vissuto all’interno della doppia anima del partito per più di quaranta anni senza avvertire le profonde contraddizioni che poi hanno portato al suo scioglimento. Si sentiva partecipe e difensore, attraverso il partito, della democrazia della Repubblica e nello stesso tempo additava l’Unione Sovietica (la Russia) come il paese che aveva abolito la disoccupazione, dove lo Stato creato da grandi personalità quali Lenin e Stalin pensava a tutto, un modello politico e sociale da emulare. Con la svolta della Bolognina di Occhetto si è rotto il legame di mio padre con la politica. Da quel momento ha iniziato a comprare solo giornali sportivi, a seguire la lirica, il calcio e il ciclismo che hanno occupato completamente il campo dei suoi interessi. Certo ha continuato ad andare a votare senza mai mancare ad un appuntamento, ma era sempre un voto contro e non un voto per. Ha continuato per un po’ a frequentare la Casa del Popolo  ma solo per partecipare a viaggi turistici. Non l’ho più sentito né criticare né esaltare l’Unione Sovietica, mentre prima non era possibile discutere con lui sulle vicende che riguardavano il mondo comunista senza litigare e senza essere accusati di essere vittima della propaganda dei padroni. Per quel che posso dire, però quella di mio padre non è stata una vicenda personale ma una vicenda comune a moli militanti: la base del PCI si è dissolta in poco tempo. Certo si può dire che questi militanti non avevano gli strumenti culturali per elaborare il lutto del partito. Ma è così? Molti tra i dirigenti hanno continuato a far politica nelle nuove formazioni ma hanno condiviso con la base il silenzio sulla storia del partito, la mancanza di una riflessione critica sul perché della fine  del PCI in un tempo così rapido e per cause prevalentemente esterne, la fine di un regime verso il quale si predicava la differenza e da quale da alcuni anni si cercava di allontanarsi. Altro punto di interesse è quello del ruolo di un partito che si proponeva come intellettuale collettivo, soggetto portatore di una funzione pedagogica nei confronti dei militanti a livello non solo politico ma anche culturale e sociale. Quale era il peso del mito dell’unione Sovietica o del culto della personalità o ancora del ruolo dei gruppi dirigenti all’interno del modello culturale proposto alla base se il crollo del socialismo reale è riuscito a trascinarsi dietro anche il Partito Comunista Italiano e l’entusiasmo dei suoi militanti che alla fine hanno deciso in gran parte di non seguire i loro dirigenti? E la crisi del PCI non rivela anche il parallelo sviluppo di autonomia da parte dei militanti che hanno deciso di non seguire i loro dirigenti, decretando però così la crisi di un’area politica come quella della sinistra? Quale era il modello di democrazia che veniva veicolato dal modello culturale elaborato dai dirigenti e dagli intellettuali “organici”, un modello che costituisce un nodo fondamentale da sciogliere vista anche la crisi delle democrazie liberali attuali di fronte ai grandi cambiamenti che stanno interessando tutto il mondo? È solo della televisione o dei social e della rete la responsabilità del distacco dalla politica o è mancata una prospettiva culturale in grado di ricostruire i legami che erano entrati in crisi soprattutto all’interno della sinistra che ha sempre messo in primo piano il ruolo della partecipazione attiva tra i valori che dovrebbero contraddistinguere quest’area? È stato forse il centralismo non più sostenuto dai miti a facilitare la deflagrazione di un partito che sembrava solido e ben radicato nelle masse? Quale può essere all’interno della sinistra il rapporto tra élite e base affinché tale rapporto non svuoti di significato la partecipazione politica delle masse? E infine quale rapporto con i grandi valori del liberalismo in una società che sembra aver perso la consapevolezza del rapporto tra le libertà e i limiti di esse affinché non vengano meno per la maggior parte dei cittadini? Credo siano queste le domande che la vicenda del Partito comunista italiano ha lasciato aperte per chi ancora crede che i valori del socialismo rimangano grandi ideali politici, culturali e morali di riferimento da coniugare necessariamente ma anche con grandi  e  complesse forme di mediazione con quelli della democrazia e del liberalismo.

Gruppo di militanti comunisti ad una festa nazionale dell’Unità tra cui mio padre e mia madre che sostengono le bandiere