Una sogliolina nella Senna

Una sogliolina nella Senna è l’ultimo racconto del libro di Ovidio Della Croce uscito nel dicembre 2018 e a cui dà il titolo. Sottotitolo: racconti d’amore con immagini. Il libro è una raccolta di sei racconti, un calligramma, una poesia e sei immagini. Alcune di queste non illustrano il racconto, così come il racconto non accompagna le immagini. Donna con cappello di Isabella Staino dialoga con la foto di copertina così come due sconosciute, che si sono incontrate per caso, si fermano molto volentieri a scambiare due parole. Alcune invece hanno un rapporto con le storie. Da diversi anni seguo il lavoro di Vero Pellegrini, Domitilla Ferrara, Daniela Sandoni e Isabella Staino, semplicemente perché mi piace il loro modo di guardare e raccontare con i colori e le incisioni.

Il protagonista del racconto, per recuperare un po’ di memoria che gli serve per afferrare una storia ineffabile, si affida a delle fotografie. Vengono qui pubblicate alcune di quelle foto contenute in tre piccoli album.

Galleria: un viaggio a Parigi

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Una sogliolina nella Senna

Passano gli anni, ma il ricordo di quando ci incontrammo è ancora vivo, nonostante le mie condizioni. Sempre lo stesso: la vedo al Louvre davanti alla Gioconda, all’improvviso si gira e incrocia il mio sguardo incantato, se mi avesse anche sorriso, sarei crepato. Punto.

Una storia banale, ma è andata proprio così. Però, come? Cosa è successo prima? E dopo? Non si può scrivere una storia poetica come questa senza dire come, dove e quando.

Sembra ieri, ma quasi quarant’anni, cioè trentanove, sono un periodo enorme. Questa storia è rimasta molto a lungo dentro di me, sono sempre stato trattenuto dal raccontarla per il timore di tradire l’originale. Una volta incontrai uno scrittore che amo molto e che fa un uso parco delle parole, scrive per sottrazione. E con questa economia delle parole è capace di produrre atmosfere sublimi. In una situazione in cui non mi sentivo troppo intimorito, gliela raccontai, un po’ ingrassata, con la speranza di ritrovarla in uno dei suoi libri. Fatto sta che scattò il clic, si stabilì una maggiore intimità, lo scrittore mi ascoltò con attenzione e alla fine disse una frase che non ricordo. Ero molto emozionato, ma che stupido! E poi ora ci si è messa di mezzo anche la centralina che comincia a fare brutti scherzi. Vediamo cosa è rimasto in questa mia testa. Della frase che mi disse lo scrittore ho dimenticato tutto, è rimasta solo una parola: “ineffabile”.

Da quando ho saputo che avrei perso la memoria mi è venuta l’urgenza di afferrarla questa storia ineffabile. So che perderò la memoria e non sono tanto avanti con l’età. La mia compagna mi ha detto: «Scrivi tutto quello che vuoi che sia fatto». Ho già cominciato a scrivere i fondamentali: come mi chiamo, dove e quando sono nato, chi era mio padre, chi era mia madre, il nome di mia sorella, di mia figlia, della mia compagna. E me li ripasso tutti i giorni per non dimenticarli. Avrei potuto scegliere di scrivere altre storie. La fuga dall’asilo con il mio amico Paolo. Il viaggio a Lisbona durante la Rivoluzione dei garofani. Un’estate in Sardegna con la mia famiglia e gli amici. Le mie condizioni non mi permettono più di ricordare bene e le immagini sono confuse, rapide, i miei sensi le percepiscono ma non le ritengono. Anche per questa storia, per quell’incontro non ricordo bene quello che successe poco prima e poco dopo. Per fortuna ho delle fotografie in bianco e nero che rappresentano dei giovani fermi. Se li guardo cominciano a muoversi nella mia mente. Ho anche un quaderno, una specie di diario di quel tempo lontano. In una pagina di questo diario ci sono attaccati con lo scotch una candelina magica, un fiammifero e un bigliettino celeste con una frase scritta in stampatello: «Brucerò i giorni neri, darò vita ai desideri». Seguono pagine di appunti che registrano quei giorni parigini e mi permettono di ricordare e di provare a scrivere quella storia ineffabile.

Isabella Staino: Donna con cappello

Pietro, un ragazzo alto con i capelli castani, prima di partire per Parigi, aveva comprato ai banchetti natalizi del centro un pacchetto di candeline magiche, quei bastoncini grigi che si accendono in occasione delle feste e fanno le scintille. Poi era andato in una piazzetta in zona mercato ed era entrato in un negozio storico che si chiama “Carta e Cartone”, dove si trova carta di tutti i tipi, e aveva comprato dei bigliettini colorati. Sugli stecchetti metallici delle candele magiche aveva attaccato con lo scotch uno zolfanello, il classico fiammifero da cucina, e un bigliettino arrotolato e tenuto da un gommino, su cui aveva scritto delle frasi che assomigliavano i cartigli dei Baci Perugina. Non tutte amorose e prese in prestito da poeti, filosofi, scrittori. Molte le aveva inventate lui. Una era genericamente cronachistica: «Anno vecchio finì, anno nuovo sei già qui». Un’altra era un consiglio in forma di ossimoro: «Ridere molto, non piangere di meno», ma questa forse non era sua. Poi una poesiola: «Avviso ai naviganti / del cuore. / Restate sempre amanti / a ore». E poi e poi il primo e l’ultimo verso di una poesia di Edoardo Sanguineti: «Se d’amore si muore, siamo morti, noi: … / se d’amore si vive siamo vivi:», con i due punti finali che lasciano aperto il discorso. Aggiunse anche una serie di frasi fatte, cazzate, idee banali, d’altra parte il banale è difficile a farsi. Per alzare il livello non potevano mancare almeno due o tre classici, scelse Ovidio, Catullo e Saffo. Trascrisse su un bigliettino blu il primo verso in latino di una poesia di Ovidio: «“Vive” deus “posito” siquis mihi dicat “amore”…». Su un bigliettino rosso la parte centrale di una celebre poesia di Catullo: «Da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum…». E su uno bianco il finale di una famosa lirica di Saffo: «Se non ti ama, presto ti amerà, / pur se non vuole».

“Sarà vero o sarà un sogno”, pensò con una punta di scetticismo visti i precedenti di mancata reciprocità e gli venne voglia di canticchiare Quizás, quizás, quizás… mentre continuava a scrivere altri slogan da leggere e mandare a mente con le candele beneauguranti in mano che avrebbero diffuso le loro magie di luce bianca con qualche punta di arancione.

Fra bigliettini, candele, canzoni, gommini, scotch e fiammiferi arrivò il trenta dicembre. Il viaggio in treno da Pisa a Parigi fu bizzarro. Pietro salì sul Palatino alle dieci di sera con il suo amico Enrico. Eravamo nello scompartimento, Pietro caricava la pellicola nella macchina fotografica, Enrico aveva un panino in mano. C’era anche un calabrese, che tirò fuori da un sacchetto vino rosso e salame piccante.

«Dài beviamo un sorso», disse.

Enrico beveva volentieri. Pietro no, e cominciò a prepararsi la cuccetta per dormire. Ma lo scompartimento diventò una tavola imbandita e allora si unì alla compagnia. Conversarono tutta la notte mentre il calabrese versava nei bicchieri il vino rosso e tagliava il salamino piccante.

Pietro bevve un sorso: «E se uno dice darò vita ai desideri, cosa vuol dire?».

E il calabrese rispose: «Che desidera mangiare il salame piccante e bere il vino rosso», e gli riempì il bicchiere.

«Desidero mangiare, bere, lottare, viaggiare, amare», disse Pietro.

«In poche parole vuoi essere felice», disse Enrico.

«Ecco cosa vuol dire», disse il calabrese.

Pietro mise piede a Parigi per la prima volta in vita sua la mattina dell’ultimo giorno dell’anno. Cercava di capire qualcosa di quella città nevicata. I giornali titolavano: «Paris gelée». Si abbottonò il loden grigio e si strinse la sciarpa al collo. Ma il vino rosso aiutò più del loden a superare lo sbalzo di temperatura. Nel cuore di Saint Germain-des-Prés, ringalluzziti dal vino, i due amici cominciarono a guardare le ragazze che chiamavano tutte Anne.

Ne passava una che piaceva a Enrico e lui esclamava: «Bonne Anne».

Allora cominciò a giocare anche Pietro. Ma bonne Anne diventò ben presto bonne année. E il malizioso bonne année diventò l’emblema di quella gita a Parigi. Passava una ragazza con i capelli lunghi vestita in modo originale: «Bonne année!», esultava Enrico. Passava una con i capelli rossi: «Bonne année!» diceva Pietro. In realtà la sua fidanzata con i riccioli rossi l’aveva lasciato quando faceva il militare. Una sera tornò per un permesso, salì le scale per andare a trovarla nel suo studio, lei gli aprì la porta, Pietro vide, tra il fumo e i ricciolini rossi, riflesso nella specchiera, l’uomo del partito con i baffi.

odellac dicembre 2018

«E ora? Entro dentro e gli strappo baffi!», fu il primo impulso di Pietro.

Ci pensò, si voltò e scese le scale di corsa. E ora? Senza la sua donna e senza se stesso? Andò in pasticceria, comprò una torta al cioccolato e ne mangiò più di metà. Poi vomitò sotto le logge della Posta centrale. Nelle ore piccole della notte, per sfogarsi, fece come il protagonista di un racconto che aveva letto. Vagando per la città si trovò di fronte a un manifesto pubblicitario di una donna con i riccioli che invitava a comprare il profumo che usava la sua ex fidanzata. Tra i singhiozzi prese dalla tasca una penna e le fece i baffi e il pizzetto come Duchamp aveva disegnato alla Gioconda. Scrisse nello spazio bianco: «Brutta strega! Tradirmi con un grigio uomo d’apparato. Quando faremo la rivoluzione poi ne riparleremo». A notte fonda i singhiozzi sparirono, si sentì più leggero e andò a letto quasi consolato. A settembre le avrebbe scritto una poesia. Intanto aveva capito perché ci sono tante persone che scrivono: si sfogano, come si era sfogato lui. Ma ora era appena arrivato nella ville lumière e, seppur con un tocco di malinconia, la vita era comunque en rose. Pietro e Enrico respiravano quell’atmosfera nuova e segreta delle vecchie vie parigine, dalla rive gauche presero la via del Louvre attraverso il Pont des Arts.

Pietro infilò nella tasca del loden il biglietto del museo. Quando furono dentro al Louvre si persero subito. L’appuntamento era davanti alla Gioconda. Nella sala dove c’è il quadro più famoso del mondo dovevano incontrarsi con altri amici pisani. Pietro non era un conoscitore d’arte, non sapeva bene cosa amava della pittura. Ma del resto era al Louvre e doveva andare alla Gioconda. Passò in rassegna una serie di quadri e tre statue: Amore e Psiche, La vittoria di Samotracia, e la Venere di Milo. Passò in rassegna perché non era per queste opere che era venuto al Louvre. Di fronte a tutti quei quadri Pietro fece una scelta mirata, seguì la sua passione per la storia contemporanea e, fresco di seminari di studio su Babeuf e la Comune di Parigi, si mise sulle tracce di Delacroix e della sua tela più famosa La liberté guidant le peuple. Siamo nel 1830, sull’Europa soffia il vento della Restaurazione. Ma Pietro in quegli anni sentiva soffiare il vento della rivolta. E di fronte a quella tela grande e retorica Pietro per un attimo era ciò che voleva essere: quel ragazzo sulla barricata accanto a una Marianna dai seni nudi che alza il vessillo nazionale. Poi imboccò una galleria e seguì le indicazioni pittura italiana con la faccia della Gioconda.

Nella stanza della Gioconda cercò di farsi spazio tra un gruppo di turisti esaltati che fotografavano il quadro. Sfilavano davanti a Pietro e sfilando lasciarono apparire di sfuggita la faccia di una ragazza che stava ferma, avvolta in una pelliccia di astrakan sale e pepe, con un cappuccio ampio e con i capelli neri non troppo lunghi che le toccavano le spalle. Lei non vide Pietro, lui non vide la Gioconda preso com’era dal viso della ragazza. Era bello. La ragazza all’improvviso si girò verso Pietro, ma non lo guardò subito, impiegò qualche attimo. Forse controllava le sue emozioni. Quando il suo viso affiorò, Pietro la guardò perdutamente negli occhi e la ragazza guardò gli occhi di Pietro. Restò incantato e per un attimo non vide più niente, perché il cuore gli si era fermato. Monna Lisa, chiusa nella sua teca, faceva da testimone alla scena e sorrideva per questa anomala sindrome di Stendhal. La ragazza splendeva di giovinezza, era con due amiche, una con una bella faccia piena ma con un’aria profondamente infelice, l’altra moretta e vispa. Poi si aggiunsero gli altri del gruppo, con cui Pietro e Enrico uscirono alla scoperta di Parigi. Sembravano una sfilata, ma non eravamo erano una sfilata e neanche una processione. Li guidava il Bui, studente appena laureato in Medicina, radicale libertario, attento a raggiungere un ristorante in perfetto orario per la cena. C’era sua moglie, Dani, faceva la maestra, era l’unica del gruppo che lavorava, esercitava un certo fascino su quei ragazzi squattrinati perché insegnava, aveva uno stipendio fisso e nell’ultimo anno di studio aveva mantenuto suo marito all’Università. Seguivano il corteo tre ragazze sorridenti che indossavano dei simpatici cappellini.

«Da Molina al Moulin rouge», diceva Enrico. E le tre molinesi stavano volentieri allo scherzo. Avevano preso confidenza e avevano preso gusto ad abbreviare i loro nomi per simpatia. La Tetta, che aveva fatto il Liceo classico e poi le Magistrali, studiava alla “Stella Maris” e si interessava alla psicoterapia; le piaceva il canto, era la più bohémienne. La Anto studiava filosofia contemporanea e, teneva a dire, era affascinata dagli esistenzialisti. La Simo era iscritta alla facoltà di Lettere con indirizzo cinematografico, sognava di essere una Marlene Dietrich in fuga a Hollywood, guidò la compagnia al leggendario Café de Flore alla ricerca della mitica coppia. «Così vicini, così lontani», diceva, «vuoi mettere Jean Paul Sarte e Simone De Beauvoir con certi filosofi barbosi?» e si accendeva una sigaretta.

Pietro seguiva il gruppo, ma più che altro seguiva lei, S., dopo la scintilla del Louvre non sapeva cosa dirle, era così confuso che si dimenticò che a lui sarebbe piaciuto andare in Rue de l’Université o fermarsi dai bouquinistes per incontrare quello scrittore a cui molti anni dopo avrebbe raccontato questa storia d’amore nascente. Poi si lanciò, aveva un pacchettino di Tuc in tasca, le corse vicino, lo aprì: «Vuoi un crackers?»

S. alzò gli occhi in alto, prese un Tuc e fece un sorriso. Pietro era vivo e quasi morto, così pareva.

Si aggiunse a questo gruppo vagante per i Grands Boulevards, sul metro, tra le viuzze del quartiere latino, un ragazzo fiorentino, lo chiamavano “Beaubourg”. Tra il quartiere di Les Halles e quello del Marais, per il “Beaubourg”, c’era la massima espressione della bellezza, il Centre Poumpidou o Beauboug, appunto, come se quel parallelepipedo d’acciaio ancora fresco d’inaugurazione fosse la cosa più naturale di Parigi.

Posarono le loro valige all’Home Latin, un hotel a buon prezzo nel cuore del Quartiere Latino. Presero camere con bagno in comune esterno e niente colazione inclusa. Una doccia veloce, «stasera è domenica trentuno dicembre millenovecentosettantotto, abbiamo vent’anni e siamo a Parigi nel Quartiere Latino, ma vi rendete conto?».

Scoprirono un sacco di cose belle: stazioni che diventavano musei, gli impressionisti, l’Orangerie, le Tuileries. Si persero in quel mondo nuovo, colorato e mischiato, parlavano con persone differenti utilizzando un lessico tra l’italiano e il francese come una specie di gioco linguistico, assaggiavano gusti diversi, erano attratti dal kebab, mangiavano croissants, crêpes dolci e salate e “les frites route en faisant”, si erano ritrovati nel posto giusto al momento giusto, così lontani da casa, così vicini a casa.

Superata Place Viviani e l’albero più antico di Parigi, non lontano dalla Senna, davanti alla chiesa medievale di Saint Julien le Pauvre, S. disse a Pietro: «Guarda questa Chiesa, più la guardo e più mi piace».

Pietro si occupava del passato, aveva studiato anche i monaci di Cluny e il monachesimo in generale:

«Piace anche a me, così densa di storia e con quel campanile incompiuto».

«Sei stanco?», chiese S. con dolcezza.

«Al contrario, nonostante il viaggio e la notte insonne, mi sento in forma».

S. fu contenta della sua energica risposta e raggiunsero il gruppo in Place St-Michel.

Migliaia di ragazzi avevano trasformato quella piazza in un’enorme discoteca all’aperto. Ce n’era uno sulla fontana che sventolava una bandiera con tre colori: bianco, blu e rosso.

La Simo lo guardò e disse: «Che bel film!». A mezzanotte S. prese dalla sua borsa una bottiglia di champagne, mentre Pietro regalava agli amici i suoi bastoncini magici. Il tappo dello champagne volò, i bastoncini scintillavano e i bigliettini benauguravano. I loro corpi si mossero, brindarono e ballarono. Erano una strana coppia di innamorati. Lui uno spilungone di un metro e ottantotto, lei un po’ bassina e misteriosa. Erano una coppia di innamorati e la musica saliva, quel giovane alto e quella ragazza misteriosa in quella piazza di Parigi si sentivano al centro del mondo. E la musica saliva, e intanto la terra girava, ma salendo sopra le luci e ancora più su, i due innamorati non erano altro che dei puntini che sarebbero scomparsi nel buio. Due puntini felici. Lei lo prese sotto braccio e gli disse: «Non ho più voglia di ballare».

Uscirono dalla calca e presero il Quai des Grands-Augustins. In quella camminata buñueliana ragionavano di come fosse ottimista lui e pessimista lei, di quanto si illudesse lui e di quanto fosse disillusa lei, di come era radicale lui in politica e di come lei lo fosse nei pensieri, di quanto parlasse lui e del perché fosse taciturna lei, di quanti amici avesse lui e di come fosse sola lei. Poi cominciarono a giocare con i loro nomi: lui le storpiava il cognome, la chiamava “Virgolucci”, come un segno di punteggiatura particolare; lei lo nominava solo con le iniziali del nome e del cognome, P.D.C., che allora suonava come l’ennesima sigla di un partitino di estrema sinistra da cortile, ma che lui sciolse in altro modo: Pare Dio Cuore. Svoltarono verso il Pont Neuf. Si affacciarono a un balcone a respirare il vapore della notte. Pietro voleva farle un regalino di capodanno. Nel suo loden gli era rimasta una candela magica con il bigliettino blu della frase di Ovidio in latino. Ma trovò nella tasca il biglietto di ingresso al Louvre. Scartò la frase in latino e sventolò il biglietto del museo davanti agli occhi di lei. Le chiese una penna e scrisse «A S. bonne année, da PDC», e glielo dette. Anche lei aveva ancora il biglietto del Louvre, fece una bella risata, frugò nella tasca della pelliccia, lo trovò e lo sventolò come per dirgli ecco la contromarca. Risero di gusto. Prese la penna e scrisse: «Caro amico, ti saluto e l’anno che verrà speriamo sia meglio», lo siglò “S.”, unì i due biglietti con delle pieghette e li poggiò sul muretto.

«Sembrano due parti di una sogliolina che si sono ricongiunte», volò di fantasia Pietro.

«Sogliolina?», disse S. perplessa: «Sono due biglietti uniti e aperti».

Pietro si avvicinò al muretto del balcone, prese quella specie di simbolo del loro incontro, lo sbandierò in aria e lo buttò nella Senna. La sogliolina svolazzò un po’, poi non si vide più.

«Speriamo resista alla corrente e raggiunga il mare», disse piano. Chissà, chissà, chissà…

È tutto così lontano, non riesco a credere che ci sia stato veramente un tempo in cui è successo tutto questo. Ora è solo una storia raccontata come meglio ho potuto. Avrei preferito fosse stata narrata da quello scrittore a cui la dissi tempo fa in una bella sera di maggio. Quando perderò del tutto la memoria ho dato disposizioni a mia figlia su cosa fare. Comunque, se d’amore si vive, siamo vivi: è sempre un bel verso finale. Con i due punti, anzi due puntini felici:

Odellac