L’amicizia con gli scrittori, con Sciascia prima di tutto, ma anche con Vázquez Montalbán, che cosa ha aggiunto al suo mestiere?
Direi tutto. Mi fecero capire che la fotografia ha un rapporto molto più stretto con la scrittura di quanto non ce l’abbia con la pittura.
Lei trova che ci sia più racconto in un lavoro editoriale, in un libro, piuttosto che in una mostra?
Trovo un po’ grottesco e anche un po’ inutile fare dei confronti tra il lavoro di un fotografo e quello di un pittore. I dipinti si fanno, le fotografie si ricevono, è il mondo che si scrive da solo. Il fotografo è un interprete, non è un creatore, non è uno scrittore di luce. Le mostre sono molto pericolose da questo punto di vista, e io le amo poco, perché tendono a proporre un modo di fruire le fotografie molto simile a quello della pittura. Ho tentato di fare mostre che fossero dei palinsesti, dei pannelli, dei percorsi, e a volte ne ho avuta la possibilità.
Le categorie della scrittura si possono applicare alla fotografia?
I libri di Cartier-Bresson possono essere assimilati ad un poema, perché le immagini hanno una loro autonomia. Messe insieme fanno un libro. I libri di Sebastiano Salgado, hanno strutture più vicine alla prosa, al romanzo. I miei libri li considero libri con le fotografie piuttosto che di fotografie. Il mio approccio è contraddittorio: io sono contemporaneamente bressoniano, mi affascina l’idea della fotografia fine a sé stessa, eroica, ma mi affascina anche l’idea che le fotografie messe insieme costruiscano storie.
“I fotografi, diversamente dai filosofi, cercano di mettere a fuoco quello che c’è, piuttosto che quello che non c’è.”
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