I cimiteri sembrano il luogo di unione tra il presente e il passato separati dalla morte come destino ineludibile di ogni uomo, il luogo costruito dai vivi per far continuare a vivere i morti edificando case, strade simili a quelle delle città dei vivi, scrivendo nomi, date, adornando tutto ciò con statue, monumenti, croci e lapidi e inserendo su queste lapidi fotografie, volti che non si sempre si capisce a quale momento della vita della persona morta rimandano. La fotografia viene scelta in genere per conservare un’immagine del parente morto che piace a chi rimane, non un’immagine che corrispone al bisogno di far sapere chi era il morto.
I cimiteri sono costruiti con l’intento di creare un luogo dove la memoria dei morti, i loro ricordi si materializzino e prendano vita attraverso elementi concreti tangibili che somiglino a quelli che popolano il mondo dei vivi , un luogo che forse è stato creato per cercare di fermare il tempo e la sua azione divoratrice in favore di chi rimane. I cimiteri sono invece per me il luogo dove il dolore del distacco, della separazione, che il tempo e la routine rendono sottili, quasi impercettibili, riprende vigore e dove si percepisce in modo più netto l’assenza, l’impossibilità di fermare la fuga del passato.
Ciò che esiste ancora dei miei morti, di mio padre e di mia madre, sono gli ultimi sguardi, le ultime parole, i loro sorrisi, i loro gesti che vivono in me. Questi ricordi sono vivi, reali, dolorosi. I corpi dei miei genitori che sono sepolti qui sono forse materiali, la cui presenza è segnalata da parole come accadeva sul campanello della casa dove abitavano, ma sono silenziosi e inerti come le lapidi in cui sono iscritti i loro nomi. La città dei morti è illusoria, irreale. I morti vivono solo della vita dei vivi.
Qualcuno può dire che i segni di cui i cimiteri sono pieni sono stimoli per la memoria, che solo attraverso questi segni, queste tracce ciò che non è più presente continua a vivere. Io penso che le tracce siano mute, come muti sono i libri quando non sono letti. Certo i libri sono necessari perché hanno consentito al pensiero umano di potenziarsi, di conservare la memoria, di vivere esperienze che altrimenti non sarebbe stato possibile vivere, ma i cimiteri non hanno svolto e non svolgono una funzione simile.
Se i cimiteri sono inutili perché allora li creiamo?
Calvino ne Le città invisibili descrive Laudomia, una delle città che entra in relazione con i morti, come una città duplice, una città costituita da due città parallele, quella dei vivi e quella dei morti, che si accrescono a dismisura in sincronia. La Laudomia dei morti è lo specchio della Laudomia dei vivi. La differenza più evidente è che la Laudomia dei morti è la città della necessità, dell’ordine, quella dei vivi la città del caso, della possibilità, dell’imprevedibile, del caos. I vivi cercano nella Laudomia dei morti le loro rassicurazioni, le loro certezze forse, anche se Calvino non lo dice, tramite il bisogno in parte soddisfatto di trovare delle radici che sostengano chi si trova a vivere nella città del presente oppure la rassicurante sensazione dell’esser vivo, dell’essere fuori da questa seconda città grazie alla presenza dell’altra. Ma la città dei vivi e quella dei morti non sono le sole realtà, vi è una terza città, quella dei non nati. È forse in questa terza città che si deve cercare il senso del rapporto tra città dei vivi e città dei morti, nello sgomento che la città dei non nati proietta sulla città dei vivi, un esercito infinito che proviene dal futuro e che minaccia di sconvolgere e cancellare sia la città dei vivi che quella dei morti, di incutere sgomento, lo sgomento della fine che incombe.
Da Italo Calvino “Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972
Le città e i morti
Ogni città, come Laudomia, ha al suo fianco un’altra città i cui abitanti si chiamano con gli stessi nomi: è la Laudomia dei morti, il cimitero. Ma la speciale dote di Laudomia è d’essere, oltre che doppia, tripla, cioè di comprendere una terza Laudomia che è quella dei non nati.
Le proprietà della città doppia sono note. Più la Laudomia dei vivi si affolla e si dilata, più cresce la distesa delle tombe fuori delle mura. Le vie della Laudomia dei morti sono larghe appena quanto basta perché giri il carro del becchino, e vi s’affacciano edifici senza finestre; ma il tracciato delle vie e l’ordine delle dimore ripete quello della Laudomia viva, e come in essa le famiglie stanno sempre più pigiate, in fitti loculi sovrapposti. Nei pomeriggi di bel tempo la popolazione vivente rende visita ai morti e decifra i propri nomi sulle loro lastre di pietra: a somiglianza della città dei vivi questa comunica una storia di fatiche, arrabbiature, illusioni, sentimenti; solo che qui tutto è diventato necessario, sottratto al caso, incasellato , messo in ordine. E per sentirsi sicura la Laudomia viva ha bisogno di cercare nella Laudomia dei morti la spiegazione di se stessa, anche a rischio di trovarvi di più o di meno: spiegazioni per più di una Laudomia, per città diverse che potevano essere e non sono state, o ragioni parziali, contraddittorie, delusive.
Giustamente Laudomia assegna una residenza altrettanto vasta a coloro che devono ancora nascere; certo che lo spazio non è in proporzione al loro numero che si suppone sterminato, ma essendo un luogo vuoto, circondato da un’architettura tutta nicchie e rientranze e scanalature, e potendosi attribuire ai non nati la dimensione che si vuole, pensarli grandi come topi o come bachi da seta o come formiche o uova di formica, nulla vieta di immaginarli ritti o accoccolati su ogni aggetto o mensola che sporge dalle pareti, su ogni capitello o plinto, in fila oppure sparpagliati, intenti alle incombenze delle loro vite future, e contemplare in una sbavatura del marmo l’intera Laudomia di qui a cento o mille anni, gremita di moltitudini vestite in fogge mai viste, tutti per esempio in barracano color melanzana, o tutti con piume di tacchino sul turbante e riconoscervi i discendenti propri e quelli delle famiglie alleate e nemiche, dei debitori e creditori, che vanno e vengono perpetuando i traffici, le vendette, i fidanzamenti d’amore o d’interesse. I viventi di Laudomia frequentano la casa dei non nati interrogandoli; i passi risuonano sotto le volte vuote; le domande si formulano in silenzio: ed è sempre di sé che chiedono i vivi, e non di quelli che verranno; chi si preoccupa di lasciare illustre memoria di sé, chi di far dimenticare le sue vergogne; tutti vorrebbero seguire il filo delle conseguenze dei propri atti; ma più aguzzano lo sguardo, meno riconoscono una traccia continua; i nascituri di Laudomia appaiono puntiformi come granelli di polvere, staccati dal prima e dal poi.
La Laudomia dei non nati non trasmette, come quella dei morti, una qualche sicurezza agli abitanti della Laudomia viva, ma solo sgomento. Ai pensieri dei visitatori finiscono per aprirsi due strade, e non si sa quale riserbi più angoscia: o si pensa che il numero dei nascituri superi di gran lunga quello di tutti i vivi e tutti i morti, e allora in ogni poro della pietra s’accalcano folle invisibili, stipate sulle pendici di un imbuto come sulle gradinate d’uno stadio, e poiché a ogni generazione la discendenza di Laudomia si moltiplica, in ogni imbuto s’aprono centinaia di imbuti ognuno con milioni di persone che devono nascere e protendono i colli e aprono la bocca per non soffocare; oppure si pensa che anche Laudomia scomparirà, non si sa quando, e tutti i suoi cittadini con lei, cioè le generazioni si succederanno fino a raggiungere una cifra e non andranno più in là, e allora la Laudomia dei morti, e quella dei non nati sono come le ampolle d’una clessidra che non si rovescia, ogni passaggio tra la nascita e la morte è un granello di sabbia che attraversa la strozzatura, e ci sarà un ultimo abitante di Laudomia a nascere, un ultimo granello a cadere che ora è qui che aspetta in cima al mucchio.
Calvino introduce quindi la terza città, una città parallela alla città dei vivi e a quella dei morti, quella dei non nati, quella di ciò che non è ancora, all’interno della quale tutto è ancora possibile, assegnandole un ruolo importante, quello di condizionare i vivi, di proiettare un cono oscuro sul mondo dei vivi. La città dei morti e la città dei non nati appartengono forse alla città dei vivi. La città dei non nati e la città dei morti sono presenti in noi. La città dei non nati vive in noi come il prodotto della nostra immaginazione rivolta al futuro e agisce su di noi come agisce la città dei morti, tramite un elemento non materiale, uno stato d’animo, un sentimento, uno stato emotivo: l’angoscia dell’infinito e l’angoscia della fine. Rispetto alla conclusione di Calvino che vede il rapporto tra città dei non nati e la città dei morti dividersi in queste due grandi possibilità, quella dell’infinita crescita e quella della fine di ogni esistenza metaforicamente rappresentata dalla clessidra, io mi riconosco nella seconda, nella prospettiva della clessidra che si esaurisce. Vedo questo rapporto, seguendo Calvino, come un rapporto tra due vasi comunicanti uniti da un esile foro e in quest’esile foro si realizza il presente, uno stato di un processo limitato e finito. Il modo dei morti e il mondo dei non nati sono uniti dal mondo dei vivi e l’uno passa nell’altro attraverso quel foro fino a quando l’ultimo non nato sarà morto.
Il mondo dei morti nel cimitero è invece rappresentato dalle statuette di pietra, di marmo che lo popolano, mondo oramai pietrificato anche se qualcuno ha cercato di dar loro un’anima. Il cimitero non sostiene chi è vivo nella ricerca della sue certezze, della sua identità. Il cimitero è solo il prodotto della paura dell’uomo che è non è in grado di accettare il vuoto come oggi lo intende la fisica, un pieno indistinto in cui sono presenti tutti gli elementi e il loro contrario, un vuoto che non coincide con il nulla, e lo sostituisce con un suo simulacro. Non vedo in quelle statuette che popolano il cimitero, che cercano di introdurre un elemento vitale nella città che i vivi hanno costruito per i morti, l’anello di congiunzione con un altro mondo possibile. L’unico vero momento di unione è rappresentato dal foro che unisce i non nati ai morti e quel foro è il presente. Come diceva Agostino il tempo è il prodotto della somma di passato, presente e futuro: ma il passato non é più e il futuro non é ancora. Soltanto del presente si può dire che é, ma se il presente fosse sempre attuale, sarebbe l’ eternità. In realtà esso esiste come presente solo a condizione di tramutarsi in passato e di non essere ancora futuro. Nel presente e solo nel presente esistono passato e futuro e il presente non è uno strato sottile che si dilegua continuamente ma è una dimensione corposa che consente al passato e al futuro di esistere e di interagire. Il tempo è solo una stato di coscienza dell’uomo derivato dall’essere qui ed ora. I granelli di sabbia dei non nati sono spinti nello spazio dei morti attraverso quel passaggio che può essere più o meno veloce e che avviene sotto la pressione di forze caotiche come quelle che nei gas muovono le particelle. In quel caotico spazio prendono vita passato, presente e futuro. I morti costituiscono l’esito di questo processo entropico in cui ciò che è prodotto dalla forza che spinge i non nati attraverso il presente si dissolve nel mondo dei morti che in sé è niente ma che i vivi cercano di materializzare edificandolo con estremo ordine, come cimitero come tentativo di tener lontano il vuoto come totalità popolata da elementi indistinti. La natura dei non nati spaventa i vivi, il loro non essere legati a niente, il loro essere imprevedibili e aperti a tutto.
“i nascituri di Laudomia appaiono puntiformi come granelli di polvere, staccati dal prima e dal poi. La Laudomia dei non nati non trasmette, come quella dei morti, una qualche sicurezza agli abitanti della Laudomia viva, ma solo sgomento.”
La caoticità delle forze inconsapevoli che spingono i non nati nel foro del presente e quindi verso la morte porta i vivi a porsi domande che non hanno risposte, ricerca di un senso laddove non c’è alcun senso. Il cimitero è il tentativo di uscire da quest’angoscia. Il cimitero è un tentativo di porre un freno a questa angoscia.
Fotografare il cimitero è un po’ come fotografare il disperato tentativo dell’uomo di uscire dal tempo. Fotografia e cimitero in qualche modo si somigliano. Sono mezzi inventate per uccidere il tempo e la paura del vuoto che il tempo evoca. Il più significativo progresso della tecnologia della fotografia è stato quello di ridurre il tempo, il tempo dell’esposizione, per poter catturare istanti sempre più brevi, istanti da estrare dal flusso del tempo. Ridurre il tempo dell’esposizione ha permesso di aumentare il numero dei tempi catturati, di riuscire a fermare anche gli istanti, il soffio del tempo. Anche la fotografia però, come i cimiteri, è destinata alla sconfitta. Cimiteri e fotografia sono riassorbiti nel tempo e passano come tutte le cose. La loro durata è legata alla presenza dei vivi che li frequentano, li guardano, li conservano, li consegnano ai non nati. L’angoscia della fine del tempo, della morte è insopprimibile nonostante tutti i tentativi di contenerla, nonostante l’epicureo sforzo della ragione di annullare la morte grazie alla presenza della vita, nonostante il moderno tentativo di nascondere la morte o di banalizzarla come semplice evento naturale spiegabile, come ricorda Musil nell’inizio dell’Uomo senza qualità, con la riduzione di essa alle sue cause fisiche o meccaniche o con il suo inserimento nel mondo delle statistiche.
La morte sfugge a tutti questi tentativi e si ripresenta inesorabile come destino di tutti, destino con il quale dobbiamo fare i conti. Destino che non può esser semplicemente compreso perché costituisce un’esperienza tragica e nello stesso tempo destino che non può annullare la vita di chi rimane nonostante il suo carico enorme di dolore. Certo può accadere che la morte renda impossibile la vita di chi rimane, ma in questo caso accade qualcosa che strappa il tessuto della nostra forma di vita.
massimocec agosto 2017
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