Una lettura di Lettera da Casablanca di Antonio Tabucchi
A cura di Antonella Bucchioni e Ovidio Della Croce
Il racconto è tratto da: Antonio Tabucchi, Lettera da Casablanca, in Il gioco del rovescio, il Saggiatore, Milano 1981, pp. 25-41.
Estratto dal testo di cui pubblichiamo l’incipit e il finale.
Lettera da Casablanca
Lina,
non so perché comincio questa lettera parlandoti di una palma, dopo diciotto anni che non sai più nulla di me. Forse perché qui ci sono molte palme, le vedo dalla finestra di questo ospedale che ondeggiano le lunghe braccia al vento torrido lungo i viali infuocati che si perdono verso il bianco. Davanti a casa nostra, quando eravamo bambini, c’era una palma. Forse tu non la ricordi perché fu abbattuta, se la memoria non mi inganna, l’anno che successe il fatto, dunque il Cinquantatré, mi pare in estate, io avevo dieci anni.
[…]
La sera in cui Carmen smise di cantare fu il panico. Non smise di sua volontà, evidentemente, eravamo in camerino, io la stavo truccando, stava reclinata sulla poltrona davanti allo specchio, fumava il suo sigaro, teneva gli occhi chiusi, e improvvisamente la cipria cominciò a impiastricciarsi sulla sua fronte, mi accorsi che sudava, la toccai, era un sudore freddo, « mi sento male » mormorò, e non disse altro, si portò una mano al petto, le presi il polso, non si sentiva più, andai a chiamare il direttore di sala, Carmen tremava come se avesse la febbre, ma non aveva febbre, era gelata. Per portarla all’ospedale chiamammo un taxi, io la sostenni fino all’uscita secondaria, perché il pubblico non la vedesse, « ciao Carmen », le dissi, « non è niente, domani ti vengo a trovare », e lei tentò un sorriso. Erano le undici, i clienti stavano cenando, sulla pedana il riflettore disegnava un cerchio di luce vuoto, il pianista suonava in sordina per riempire l’assenza, poi dalla sala venne un piccolo applauso di impazienza, reclamavano Carmen. Il signor Paiva, dietro il tendaggio, era nervosissimo, succhiava la sua sigaretta con ansia, chiamò il direttore di sala e gli disse di servire gratis dello spumante, forse era un’idea per tenere buono il pubblico. Ma in quel momento un piccolo coro scandì « Car-men! Car-men! », e allora non so cosa mi prese, non fu una cosa pensata, sentii una forza che mi spingeva dentro il camerino, accesi le luci da trucco attorno allo specchio, scelsi un vestito molto attillato, di lustrini, con uno spacco sul fianco, tipo finto volgare, delle scarpe bianche col tacco altissimo, guanti neri da sera a mezzo braccio, una parrucca rossa coi riccioli lunghi. Gli occhi me li truccai pesantemente, di argento, ma per le labbra scelsi un bâton leggero, un abricot opaco. Quando entrai in pedana il riflettore mi colpì in pieno, il pubblico smise di mangiare, vedevo tanti visi che mi fissavano, molte forchette erano rimaste sospese in aria, quel pubblico io lo conoscevo, ma non lo avevo mai visto di fronte, così disposto a semicerchio, sembrava un assedio. Cominciai con Caminito verde, il pianista era un tipo intelligente, capì immediatamente il mio timbro di voce, mi fece un accompagnamento molto discreto, tutto su toni bassi, e allora io feci un cenno all’elettricista, lui mise un disco azzurro, io afferrai il microfono e cominciai a sussurrarci dentro, lasciai che il pianista facesse due intermezzi per prolungare la canzone, perché gli occhi del pubblico non mi lasciavano ; e mentre lui suonava io mi muovevo lentamente sulla pedana e il cono di luce azzurra mi seguiva, ogni tanto muovevo le braccia come se nuotassi in quella luce e mi accarezzavo le spalle, con le gambe leggermente divaricate e la testa ondeggiante perché i riccioli mi accarezzassero le spalle, come avevo visto fare a Rita Hayworth in Gilda. E allora il pubblico cominciò ad applaudire con trasporto, io capii che la cosa andava e lo presi di contropiede: per non lasciare che l’entusiasmo si smorzasse, prima che l’applauso finisse, attaccai un’altra canzone, questa volta fu Lola Lolita la Piquetera e poi un tango bonairense degli anni Trenta, Pregunto, che li fece andare in delirio. Ebbi un applauso che Carmen aveva soltanto nelle serate di grazia. E allora mi salì un’ispirazione, una follia, andai dal pianista, mi feci dare la giacca, la indossai sul mio vestito e come per scherzo, ma con molta malinconia, cominciai a cantare la romanza di Beniamino Gigli Oh begli occhi di fata come se fosse indirizzata a una donna immaginaria per la quale sospiravo d’amore; e man mano che andavo cantando, quella donna che evocavo veniva da me richiamata dal mio canto, allo stesso tempo mi sfilavo lentamente la giacca, e mentre sussurravo nel microfono l’ultima strofa, della mia gioventù cogliete il fiore, mi abbandonavo al mio amante, ma il mio amante era il pubblico, che fissavo con trasporto, io ero di nuovo io, e col piede allontanai la giacca che avevo lasciato cadere sulla pedana. E di seguito, prima che l’incanto finisse, strusciandomi il microfono sulle labbra attaccai a cantare Acércate mas. Successe una cosa indescrivibile, gli uomini si erano alzati in piedi e applaudivano, un signore anziano con la giacca bianca mi lanciò un garofano, un ufficiale inglese da un tavolo della prima fila venne sulla pedana e cercò di baciarmi. Io scappai in camerino, mi sembrava di impazzire di eccitazione e di gioia, provavo una specie di scossa in tutto il corpo, mi chiusi dentro, ansavo, mi guardai allo specchio, ero bella, ero giovane, ero felice, e allora mi prese un capriccio, indossai la parrucca bionda, misi intorno al collo il boa di piume azzurre lasciando che strusciasse sul pavimento dietro di me e ritornai in sala a piccoli salti, come un folletto.
Prima feci Que será será alla maniera di Doris Day, e poi attaccai Volare con un ritmo di chà-chà, ancheggiando, invitai il pubblico ad accompagnarmi scandendo il ritmo con le palme delle mani, e quando io cantavo « vo-la-re! » un coro mi rispondeva « oh-oh », e io « cantare! », e loro « oh-oh-oh-oh! ». Sembrava il finimondo.
Quando ritornai in camerino lasciai dietro di me l’eccitazione e il rumore, stavo lì, sulla poltrona di Carmen, piangevo dalla felicità e sentivo il pubblico che scandiva « nombre! nombre! ». Entrò il signor Paiva, era allibito e raggiante, gli brillavano gli occhi, « devi uscire a dire il nome », disse « non riusciamo a calmarli ». Ed io uscii di nuovo, l’elettricista aveva messo un disco rosa che mi inondava di una luce calda, io presi il microfono, avevo due canzoni che mi urgevano in gola, cantai Luna rossa e All’alba se ne parte il marinaro. E quando il lungo applauso si andava smorzando sussurrai nel microfono un nome che mi venne spontaneo alle labbra. « Giosefine », dissi. « Giosefine ».
Lina, sono passati molti anni da quella sera, e io ho vissuto la mia vita come sentivo di doverla vivere. Durante le mie peregrinazioni per il mondo ho sempre pensato di scriverti e non ho mai avuto il coraggio di farlo. Non so se hai mai saputo quello che successe quando eravamo bambini, può darsi che gli zii non siano riusciti a dirti niente, non sono cose che si riescono a raccontare. Comunque sia, che tu già sappia o che tu venga a sapere, ricordati che papà non era cattivo, perdonalo come io l’ho perdonato. Io da qui, da questo ospedale di questa città lontana, ti chiedo un favore. Se quanto sto per affrontare per mia volontà dovesse avere un esito negativo, ti prego di accogliere la mia salma. Ho lasciato disposizioni precise a un notaio e all’ambasciata italiana affinché la mia salma sia rimpatriata, riceverai in tal caso una somma di denaro sufficiente per le esequie e una somma a parte come ricompensa, perché io di denaro nella mia vita ne ho guadagnato abbastanza. Il mondo è stolto, Lina, la natura è turpe e io non credo nella resurrezione della carne. Credo però nei ricordi e ti chiedo di potermeli esaudire. A due chilometri circa dal casello dove abbiamo passato la nostra infanzia, fra il podere dove lavorava il signor Quintilio e il paese, se si imbocca una stradicciola fra i campi che una volta aveva come insegna « Turbine », perché portava all’idrovoro delle bonifiche, dopo le chiuse, a poche centinaia di metri da un gruppo di case rosse, si arriva a un piccolo cimitero. La mamma riposa là. Voglio essere sepolto accanto a lei, e sulla lapide farai ingrandire una fotografia di quando io avevo sei anni. È una fotografia che è restata agli zii, tu l’avrai vista chissà quante volte, siamo io e te, tu sei piccolissima, un bebè steso su una coperta, io ti siedo accanto e ti tengo la mano, mi hanno fatto vestire un grembiule e ho i riccioli legati con un fiocco. Date non ne voglio. Non fare mettere iscrizioni sulla lapide, ti prego, solo il nome, ma non Ettore: il nome con cui firma questa lettera, con l’affetto del sangue che a te mi lega, la tua
Giosefine
Nota
Lettera da Casablanca è un racconto de Il gioco del rovescio. Tutti i racconti di questa raccolta, dice Tabucchi, “sono legati da una scoperta: l’essermi accorto un giorno, per le imprevedibili circostanze della vita, che una certa cosa che era così era invece anche in un altro modo”.
Uscito la prima volta nel 1981 su “Il cavallo di Troia”, pubblicato nel 1988 per il Saggiatore Il gioco del rovescio è il libro della svolta nella ricerca di Tabucchi, con questo volume “lo scrittore passa dal romanzo al racconto, dall’Italia al mondo, dal detto al non detto”. (1)
Fu ben accolto dalla critica, Antonio Porta lo definì “un piccolo capolavoro”; anche Miguel García Posada è conquistato dai quei racconti, Il gioco del rovescio, scrive su “ABC” del 15 marzo 1986: “è il miglior Tabucchi”, e colloca lo scrittore sulla sommità della letteratura non solo europea, ma mondiale (italiana è un aggettivo di nazionalità che non viene nemmeno preso in considerazione dal critico perché troppo riduttivo). Il gioco del rovescio riceve anche diversi premi, viene consigliato come libro da mettere in valigia per le vacanze e, a questo punto, la sua risonanza si amplia fino a entrare nei libri italiani più venduti con la nuova edizione Feltrinelli, ed anche è il primo titolo ad essere tradotto in portoghese (1994), alla traduzione collabora la moglie Maria José de Lancastre. Ricordiamo infine due opere teatrali tratte da questa lettera-monologo: Lettre de Casablanca, diretto e interpretato da Christian Cloarec nel 2010 alla Comédie Française e Giosefine, spettacolo diretto da Guillermo Heras nel 2016, con la cantante di fado Susana Maria Alfonso de Aguiar, nota come Mísia.
Analisi del testo
La trama
La lettera, abbastanza lunga, è scritta da un io narrante inizialmente anonimo e indirizzata a una certa Lina con la quale non ha più rapporti da diciotto anni, ma che abitava nella stessa sua casa; si capisce dopo che chi scrive è fratello o sorella di Lina e che la famiglia di Lina e del narratore è quella di un sorvegliante di un passaggio a livello ferroviario. La persona che scrive si trova in ospedale come degente, guarda dalla finestra molte palme che fanno tornare alla mente una palma particolare. Una palma che Lina non dovrebbe ricordare perché troppo piccola e che l’io narrante ricorda benissimo perché all’epoca in cui fu abbattuta, nel “Cinquantatré”, aveva dieci anni (guarda caso anche Tabucchi nel 1953 aveva dieci anni).
L’infanzia, di cui Lina non ha ricordo, perché troppo piccina, l’hanno trascorsa assieme e poi la bimba si è trasferita a vivere con la zia, lontano da “mamma e papà”, per motivi sconosciuti a noi che leggiamo. Gli zii con cui vivrà Lina abitavano lontano, al Nord.
Ma torniamo alla palma e alla sua storia. “La palma fu abbattuta in seguito a un’ordinanza del Ministero dei Trasporti”, si legge nel testo, in quanto impedisce la visuale dei convogli di passaggio, il che può essere causa di incidenti. La loro è una palma con un tronco esile, che non dà fastidio a nessuno.
La mamma di Lina e dell’io narrante prende carta e penna e decide di scrivere direttamente al Ministro.
“Egregio Signor Ministro, in relazione alla circolare numero tal dei tali protocollo tal dei tali, riguardante la palma situata nel terreno antistante al casello numero tal dei tali della linea Roma-Torino, la famiglia del casellante informa l’Eccellenza Vostra che la suddetta palma non costituisce nessun impaccio alla visuale dei convogli di passaggio. Si prega dunque di lasciare in piedi la suddetta palma… essendo molto amata e facendo compagnia al bambino che essendo di salute cagionevole è costretto spesso a letto e almeno può vedere una palma dal riquadro della finestra… e per testimoniare dell’amore che i figli del casellante hanno per il suddetto albero basta dire che l’hanno battezzata e non la chiamano palma ma la chiamano Giosefine…”.
Purtroppo la mamma muore quando erano bambini, Lina va a vivere dagli zii e si separa dall’io narrante (che giocava col fucile, a dieci anni), che dice anche, verso la fine: “ricordati che papà non era cattivo, perdonalo come io l’ho perdonato”, ma non viene detto altro. Però alla zia Olga esce dalla bocca: “È figlio di un matto, solo un matto poteva fare quella cosa alla moglie”, prendendosi un manrovescio da suo marito, lo zio Alfredo, lei cadde, si rialzò, riordinò la tavola e fece come se “non fosse successo niente”. Chi scrive ricorda quando, nel 1958, va a vivere da uno zio a Rosario in Argentina, lo zio Alfredo che gestisce un’officina che, “accanto alla conchiglia della Shell, aveva una torre pendente al neon che però si accendeva solo per metà, perché il gas dei tubi era esaurito e nessuno aveva avuto la pazienza di sostituirli”.
Chi scrive la lettera si racconta, racconta diverse situazioni. Per esempio, ricorda com’era bello quando la mamma suonava il pianoforte e cantava Luna rossa oppure una romanza di Beniamino Gigli, Oh begli occhi di fata. Descrive la mamma come una donna che aveva ricevuto una buona educazione, che teneva al suo piano, testimonianza di una giovinezza agiata. Si descrive così: “un ragazzino malinconico e distratto, combinavo un sacco di guai per via della mia indole”, e racconta di quella volta a Rosario, nell’officina dello zio Alfredo, che lo ha allevato come fosse un figlio, gli aveva fatto perdere la pazienza, perché facendo manovra con un trattore aveva strusciato una Chrysler, distratto dalla voce di Modugno che alla radio cantava Volare.
Racconta di quando, a sedici anni, partì per Mar del Plata, della zia Olga che sperava che la città lo avrebbe cambiato, perché una volta l’aveva sentita dire di lui: “I suoi occhi mi mettono paura, sono così spaventati, chissà cos’ha visto, povero ragazzo, chissà cosa ricorda”, pensava che lo rovinassero le canzoncine che ascoltava alla radio (c’è nel racconto un affollarsi di rimandi musicali dal tango alla samba e alle canzoni degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta). Riconosce che era “un po’ preoccupante” per il suo modo di fare e chi scrive dice di sé: “Non parlavo mai, arrossivo, mi impappinavo, piangevo spesso”. A Mar del Plata va alla Pensione Albano di un genovese amico dello zio Alfredo e frequenta il Conservatorio salesiano per due anni, studia sull’organo Bach, Monteverdi e Pierluigi da Palestrina e si scopre portato per le materie classiche.
Il fratello scrive a Lina e le ricorda di quando trovò un lavoro stabile a “O Bichinho”, un ristorante night gestito da un brasiliano, “un locale con pretese di rispettabilità… anche se chi ci andava per trovare compagnia la trovava con facilità, ma con discrezione”. Attrazione del locale era Carmen Del Rio, una cantante che fu grande negli anni Quaranta e che sapeva conquistarsi il pubblico non tanto per la voce, ma per “il repertorio, le movenze, il trucco, i vestiti”. Chi scrive la lettera dice che Carmen si fidava solo di lui per il trucco, perché aveva un tocco leggero, sapeva adattare il trucco al repertorio della serata e soprattutto riusciva a cancellare il tempo sul volto della cantante.
Si arriva infine all’episodio di svolta della vita di chi scrive la lettera. Una sera, lavorando in quel locale notturno, la grande Dolores Del Rio, Carmen Del Rio nel racconto, si sente male e lui sente una forza che lo spinge dentro il camerino, si trucca, indossa un vestito attillato con uno spacco sul fianco, sale in pedana e la sostituisce per lo spettacolo.
Canta prima Caminito verde, si muove come aveva visto fare a Rita Hayworth in Gilda, poi Lola Lolita la Piquetera e poi attacca un tango, Pregunto. Tra gli applausi comincia a cantare la romanza di Beniamino Gigli Oh begli occhi di fata seguita con A cércate más. Il suo successo è grande, scappa in camerino e si sente bella, giovane e felice. Ritorna in sala e canta Que será será alla maniera di Doris Day e poi Volare e il pubblico batte il ritmo con le mani e al ritornello risponde in coro. Ritorna in camerino e piange di felicità, mentre il pubblico vuole sapere il suo nome. Esce di nuovo, prende il microfono, e canta Luna rossa e All’alba se ne parte il marinaio. Quando il lungo applauso si andava smorzando sussurra nel microfono un nome: Giosefine.
Lettera da Casablanca, scritta da Ettore alla sorella prima di farsi operare, si conclude, come in un testamento, con la richiesta di essere sepolta accanto alla mamma e di avere inciso sulla lapide solo il nome: Giosefine.
La forma narrativa
Un io narrante scrive una lettera a un destinatario che si chiama Lina. Tabucchi eccelle nella forma epistolare. La lettera dentro la lettera chiarisce la storia della palma; la lettera che la mamma di Lina e del fratello di lei, con parole tra l’ingenuo e il burocratico, nel 1953 scrive al Ministro dei Trasporti crea un effetto buffo e comico.
Su “Alfabeta” il critico Antonio Porta nota: “Tabucchi è uno scrittore di scritture”, e forse la più riuscita nella sua bravura a fare come se, è quella di tipo epistolare di Lettera da Casablanca”.
Due idee sulla vita e i ricordi
Alla fine della lettera, a questo proposito, chi scrive formula due frasi: una propone un’idea della vita come scoperta, occasione, cambiamento, l’altra parla della letteratura come memoria.
“Io ho vissuto la mia vita come sentivo di doverla vivere”.
“Io non credo nella resurrezione della carne. Credo però nei ricordi e ti chiedo di potermeli esaudire”.
Molteplicità dei tempi
Nel racconto possiamo individuare diversi tempi.
Il tempo del presente in cui stanno l’io narrante e il destinatario della lettera.
Il tempo in cui si traccia un po’ di storia della palma e si rievoca l’infanzia dei due fratelli.
Il tempo in cui chi scrive fu mandato dagli zii in Argentina, a Rosario, e dopo si trasferisce a Mar del Plata.
Il tempo in cui avviene la storia narrata.
L’affollarsi e l’incrociarsi di rimandi musicali
Si consideri come Lettera da Casablanca rievochi il fascino del teatro di rivista, dello spettacolo di varietà degli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, esotico ed erotico allo stesso tempo.
Il potere dei nomi propri
La lettera comincia con un nome, quello della sorella, e finisce con un nome, Giosefine. Ettore trova così il suo essere altro. Ricordo di come chiamavano in famiglia la palma nell’infanzia di Ettore, così importante nella vita solitaria dei bambini della famiglia dei casellanti. Nome italianizzato di quello della celebre cantante nera Josephine Baker. La personificazione è evidente: la palma prende non solo sembianze umane, ma persino un nome femminile, ripreso nel finale della lettera, quando Ettore trova la sua identità più profonda.
Considerazioni su Giosefine
“Lina,
non so perché comincio questa lettera parlandoti di una palma, dopo diciotto anni che non sai più nulla di me. Forse perché qui ci sono molte palme, le vedo dalla finestra di questo ospedale che ondeggiano le lunghe braccia al vento torrido lungo i viali infuocati che si perdono verso il bianco. Davanti a casa nostra, quando eravamo bambini, c’era una palma”. […]
È l’inizio di Lettera da Casablanca, un racconto de Il gioco del rovescio. Tutti i racconti di questa raccolta, dice Tabucchi, “sono legati da una scoperta: l’essermi accorto un giorno, per le imprevedibili circostanze della vita, che una certa cosa che era così era invece anche in un altro modo”. Uscito la prima volta nel 1981 su “Il cavallo di Troia”, pubblicato nel 1988 per il Saggiatore Il gioco del rovescio è il libro della svolta nella ricerca di Tabucchi. Questa svolta gli procurò lettori che, come noi, non l’avrebbero abbandonato più.
Cominceremo dall’episodio di svolta nella vita di chi scrive la lettera. La sera in cui la grande Carmen Del Rio, attrazione del ristorante night “O Bichino” di Mar del Plata, si sentì male. Fu allora che, chi scrive, ricorda che dal suo animo spuntò “una forza che mi spingeva dentro il camerino, accesi le luci da trucco attorno allo specchio, scelsi un vestito molto attillato, di lustrini, con uno spacco sul fianco, tipo finto volgare, delle scarpe bianche con tacco altissimo, guanti neri da sera a mezzo braccio, una parrucca rossa coi riccioli lunghi”. Interessante il trucco: pesante quello dello sguardo a confronto con la leggerezza del trucco delle labbra. Aveva imparato a giocare con lo sguardo diventando complice di Carmen, aiutandola a truccarsi, a catturare l’attenzione degli spettatori, a sedurre il pubblico nonostante i suoi anni, ma sotto la luce dei riflettori e dopo il trucco il tempo per lei sembrava quasi cancellato. “Ma quello che c’era di spettacolare in lei e che sapeva mandare il pubblico in delirio non era tanto la voce quanto tutto un complesso di risorse: il repertorio, le movenze, il trucco, i vestiti.”. Quando si esibiva il pubblico la seguiva con le lacrime agli occhi; anche se la voce aveva perso con gli anni il suo timbro roco, Carmen riusciva a creare il patetico con il suo corpo, quello di “una vecchia bellezza disfatta che cantava il tango truccata come una bambola rosa”.
La lettera è indirizzata alla sorella che da molti anni non sa più niente di lui; chi scrive ricorda che quella sera salì in pedana e sostituì Carmen per lo spettacolo.
Quella sera Ettore, sulla pedana, colpito da un riflettore, con tutti gli sguardi rivolti verso di lui, si mette in gioco e occupa la scena con il repertorio che aveva imparato, comprese le canzoni che cantava sua madre, con quello che aveva visto e aggiungendo del nuovo, si mette alla prova, nel breve spazio di una serata, e così prende coscienza, con successo, di quello che può fare e potrà diventare.
Attacca con Caminito verde, si muove come aveva visto fare a Rita Hayworth in Gilda, prosegue con Lola Lolita la Piquetera e poi, quando attacca un tango degli anni Trenta, Pregunto, il pubblico va in delirio. Tra gli applausi azzarda una follia, va dal pianista, si mette la giacca sul vestito e si atteggia a seduttore, indossando questo indumento “come per scherzo, ma con molta malinconia”. Comincia a cantare la romanza di Beniamino Gigli Oh begli occhi di fata, che cantava sua madre “con la finestra spalancata sulla maremma”. La canta come se fosse rivolta a un’innamorata immaginaria. Si abbandona al pubblico, che diventa il suo amante. Ettore vuole vedere, essere visto, riconosciuto, amato. Ha imparato a giocare con lo sguardo con Carmen, aiutandola a catturare meglio l’attenzione degli spettatori. Un intreccio di sguardi: occhi di Carmen, occhi di Ettore, occhi degli spettatori. Ora si rivolge al pubblico e intrattiene con esso, da solo, un gioco di sguardi che ha qualcosa di erotico e sensuale. Prima era Gilda, ora è di nuovo Ettore. Si sfila la giacca, la fa cadere sulla pedana e la allontana col piede. Qui Ettore effettua un passaggio fondamentale, perché è come se, mettendosi e togliendosi la giacca, finisse per scoprire e affermare la sua vera identità, il suo io più autentico. La platea allora fa un’ovazione che attesta il compimento del gioco della seduzione. Ettore ha finalmente espresso il suo desiderio: essere altro, sedurre ed essere amato. Sono uomini quelli che applaudono in piedi, resi oggetto di una seduzione tutta al femminile.
Il suo successo è enorme, così lo descrive: “Io scappai in camerino, mi sembrava di impazzire di eccitazione e di gioia, provavo una specie di scossa in tutto il corpo, mi chiusi dentro, ansavo, mi guardai allo specchio, ero bella, ero giovane, ero felice, e allora mi prese un capriccio, indossai la parrucca bionda, misi intorno al collo il boa di piume azzurre lasciando che strusciasse sul pavimento dietro di me e ritornai in sala a piccoli salti, come un folletto”. Era felice, nel momento in cui si pensa giovane e bella, al femminile. Forse la felicità vera significa anche aver conosciuto il dolore senza per questo disperare. Ettore, che ha combinato un sacco di guai per via della sua indole, ha avuto un’infanzia felice, ma la zia Olga una sera dice di lui: « a volte i suoi occhi mi mettono paura, sono così spaventati, chissà cos’ha visto, povero ragazzo, chissà cosa ricorda » Star male fa bene? È forse questa la miglior condizione per assaporare la vera felicità?
Non si dice nulla sulla sua corporatura, ma lo immaginiamo snello e svettante come il fusto esile di una palma, quella palma che vedeva dalla finestra della casa dove aveva trascorso con la famiglia un’infanzia solitaria, con il padre casellante e sua madre che scrisse una lettera stile petizione, firmata da tutta la famiglia, al ministero dei trasporti, che voleva abbatterla perché impediva la visuale dei treni. A testimonianza dell’amore che provavano per quella palma, Ettore e la sorella la battezzarono Giosefine. Nome italianizzato di Josephine Baker. Le braccia della palma che ruotano, la testa che ondeggia fin dall’incipit, “un ciuffo di rami che spazzolava la nostra finestra al primo piano”, “la palma si muove come se ballasse”, si dice dopo, ricordano la flessuosità della celebre cantante nera “che ballava con un copricapo bellissimo fatto con foglie di palma”.
Come un folletto canta Que será será alla maniera di Doris Day e poi Volare, ancheggiando, al ritmo del chà-chà e il pubblico batte il tempo con le mani e al ritornello risponde in coro “oh-oh”. Ettore si trasforma sul palcoscenico, diventa Giosefine utilizzando i segreti della seduzione, le movenze, lo sguardo.
Ritorna in camerino e piange di felicità, mentre il pubblico scandisce “nombre! nombre!”. Esce di nuovo, prende il microfono, ecco che ritorna il repertorio materno: “avevo due canzoni che mi urgevano in gola, cantai Luna rossa e All’alba se ne parte il marinaio”. A questo punto si compie il cambiamento e “nella scelta del nome si racchiude la trama di un destino” . (2)
Il fratello che si racconta alla sorella arriva all’episodio che cambia la sua vita:
“E quando il lungo applauso si andava smorzando sussurai nel microfono un nome che mi venne spontaneo alle labbra. Giosefine, dissi. Giosefine”.
Ora, a Casblanca, prima di farsi operare, il fratello scrive alla sorella questa lettera che si conclude, nel caso di esito infausto dell’intervento, come per testamento, così:
“La mamma riposa là. Voglio essere sepolto accanto a lei (…). Date non ne voglio. Non fare mettere iscrizioni sulla lapide, ti prego, solo il nome, ma non Ettore: il nome con cui firma questa lettera, con l’affetto del sangue che a te mi lega, la tua
Giosefine”.
Chi legge avverte il senso della ricerca, della sperimentazione, del mettersi giocosamente alla prova. Avverte la frenesia, l’impazienza del protagonista. Avverte la sua voglia di giocare con le vestizioni, il gusto del cambiamento, anche repentino, improvviso e imprevedibile. Il tutto viene spettacolarizzato, teatralizzato. Può darsi che Ettore metta in tutto questo quello che in vita sua ha visto e sognato circa il femminile. Un gioco di parti. Si sente un folletto. Frenetico. Impaziente di conoscere, far conoscere e vivere la sua nuova identità, quel suo essere altro, che alla fine si identifica con la parte più autentica del suo sé. Un “altro che potrebbe essere felice”. (3)
Note
1) Thea Rimini, Notizie sui testi, in Antonio Tabucchi, Opere, Mondadori, Milano, 2018, p. 1503.
2) Luigi Surdich, Antonio Tabucchi: storie, nomi, storie di nomi.
3) Antonio Tabucchi, L’automobile, la nostalgia e l’infinito, Sellerio, Palermo, 2015, p. 41.
Antonella Bucchioni e Ovidio Della Croce agosto 2019
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