Da bambino sognavo di essere Garibaldi
Da bambino sognavo di essere un rivoluzionario ottocentesco, perché affascinato dagli album delle figurine sugli eroi risorgimentali. A volte mi capita di ripensarci quando vado a vedere il film di Martone Noi credevamo o immagino di essere nel loggione della Scala in mezzo al fragore generale e gridare: Viva la Repubblica! Viva la Costituzione! Viva il Presidente! E spellarmi le mani per applaudire il maestro Daniel Barenboim che si appella all’articolo 9 della Costituzione italiana “che promuove lo sviluppo della cultura”. Finiti gli applausi mi ritrovo in casa circondato da cimeli risorgimentali di mio nonno, di ferventi ideali repubblicani (a mia nonna piaceva il re, ma nel ’46 votò per la Repubblica).
Seduto in poltrona ho tra le mani “Garibaldi”, un libro a fumetti coloratissimo pubblicato da Rizzoli. Ricordando la leggendaria “Storia a fumetti” di Enzo Biagi e le “Storie d’Italia” di Chiappori con commento del prof. Giorgio Candeloro e profilo critico di Oreste Del Buono, mi sono preso un’ora d’aria fumettara e ho letto questo “Resoconto veritiero delle sue valorose imprese, ad uso delle giovini menti” che è il sottotitolo scelto da Tuono Pettinato, alias Andrea Paggiaro. Pisano, classe 1976, abita vicino alla stazione e al murales di Keith Haring “Tuttomondo”, ha studiato al Liceo Scientifico “Buonarroti” e al Dams di Bologna, artista, tra i migliori giovani autori di fumetto italiani, “genio comico” dice di lui Michele Serra…
Lettrici e lettori della Voce del Serchio, ecco a voi Andrea Paggiaro, in arte “Tuono Pettinato”, nome che deriva da un racconto di Borges.
Tra un poco andiamo nel 2011 ed entriamo nel 150° dell’unità d’Italia e s’avanza questo tuo strano Garibaldi, un po’ don Chisciotte e un po’ cowboy, che politicamente non è certo un’aquila. Perché?
Mi piaceva che il mio Garibaldi si scrollasse un po’ di dosso quella patina di retorica e quell’immagine di eroe invincibile che anni di insegnamento scolastico gli hanno affibbiato. Dopotutto, in un fumetto umoristico è lecito, e quasi doveroso, smitizzare persino i santi, e credo che questo trattamento possa addirittura far loro del bene: gli eroi ci stanno più simpatici e ci sembrano più vivi, quando ci accorgiamo che avevano dei difetti come noi. Quando cominciamo a guardarli come esseri umani, anziché dei supermen, riusciamo a valutare diversamente, e con più affetto, le loro conquiste.
In questo caso, il mio lavoro di ‘smitizzatore’ si è basato quasi esclusivamente sul guardare ai dati storici reali con l’occhio smaliziato dell’umorista: a legger bene le fonti di documentazione (e nel corso della realizzazione ho utilizzato almeno tre fonti principali), il materiale comico era già lì sotto gli occhi, senza dover inventare praticamente niente, bastava soltanto guardare ai fatti con lo sguardo di chi sa vedere il ridicolo e l’assurdo in una situazione apparentemente innocente e neutra. Il fatto realmente documentato che Garibaldi non capisse le barzellette, che suo fratello si firmasse Garibaldy perché convinto che facesse più figo, o che l’eroe dei due mondi organizzasse laute spaghettate sperando di attirare patrioti, son cose che ho trovato subito irresistibili e che neanche nella mia più sfrenata immaginazione avrei potuto inventare!
Ma in questa ironia che nel libro non risparmia nessuno, ho cercato comunque di far trasparire la mia simpatia per il personaggio di Garibaldi, che qui appare come un impavido ingenuo, pronto a gettarsi a capofitto nel pericolo, ma poco lungimirante nello scegliersi gli alleati. Anche la parte che narra l’avventura sudamericana, dal dichiarato tono spaghetti-western, mi serviva per far contrastare la sua naturale propensione avventurosa e libertaria (appunto, da cowboy), con il clima di trame politiche che avrebbe trovato una volta rientrato in patria, in occasione della spedizione dei Mille.
Un mio caro amico mi ha convinto a leggere “Il Vernacoliere” e mi ha regalato un libro di Federico Maria Sardelli, nella dedica ha scritto: “una delle massime figure della cultura mondiale”.
Che influenza ha avuto il Sardelli nella tua formazione?
Condivido pienamente il verdetto del tuo amico in merito alla statura culturale del Maestro Sardelli. Quando verso la fine degli anni novanta ho cominciato a “far sul serio” coi fumetti, lanciandomi in albi e fanzines destinate a una cerchia di ‘lettori’ esterna al mio abituale giro di amici, le storie e le vignette del Sardelli (così come per altri versi il Matt Groening di “Life in Hell”) sono state determinanti per plasmare il mio stile umoristico. Il Sardelli riesce a costruire le situazioni più demenziali con un linguaggio che più avlico e forbyto non si potrebbe. I suoi personaggi spesso incarnano il peggio della grettezza umana, le loro situazioni sono la quintessenza della quotidianità più meschina, eppure spiccano per grazia e artifizio. Questa voluta confusione fra livello culturale elevato e bassissimo mi ha inevitabilmente conquistato. Il fatto poi ch’egli affianchi all’attività di umorista quella di compositore e di direttore d’orchestra, la dice lunga su quanto per lui cultura e nonsense siano due aspetti complementari. I miei modelli che ho più a cuore sono quelli che, come il Sardelli, hanno capito che si può fare cultura con il demenziale, e che l’idiozia può diventare una delle più squisite forme dell’intelligenza: penso naturalmente alle mitiche parodie del trio Zucker-Abrahams-Zucker, e soprattutto ai Monty Pythons.
Considerato quindi questo mio debito nei confronti del Maestro, in questo caso specifico un altro elemento mi legava lui: una delle più potenti immagini, idilliaca e propagandistica, che è giunta a noi di Garibaldi, ci arriva dalle pagine del Libro Cuore di De Amicis, libro che già in passato (ma la ristampa è fresca fresca di quest’anno), il Sardelli parodiò in maniera irresistibile e devastante nel suo “Libro Cuore (forse)”. E il libro stesso di De Amicis, in alcuni brani presi pari pari senza cambiare una virgola, compare tra le pagine del mio Garibaldi, spesso a dipingere le situazioni di una classe scolastica immaginaria, sotto l’artiglio di un maestro alquanto dispotico, i cui dialoghi fanno da cornice alle vicende narrate; a ricordarci di come la didattica di un tempo tendesse a distorcere e a mitizzare -talvolta con esiti che adesso ci paiono comicamente esasperati – i fatti della Storia patria. A conferma che, se si applica il filtro dell’umorismo, spesso il materiale di partenza basta già da solo a far ridere!
Non ti faccio altre domande, ti chiedo di parlare a ruota libera ai lettori della Voce del Serchio e saremmo felici se tu potessi anche pubblicare su questo giornale qualche immagine che dia un’idea del tuo lavoro.
Ringraziandoti ed invitando i lettori della Voce del Serchio alla lettura di questa mia fatica fumettesca, lancio un’ultima riflessione.
Mi è stato giustamente chiesto se sbeffeggiare l’Unità d’Italia ed i suoi protagonisti, specialmente in questo periodo particolarmente duro per la cultura e l’identità nazionale, non sia cosa inopportuna. Addirittura la didattica ‘alla Libro Cuore’, retorica ed altisonante, sarebbe forse da rimpiangere adesso che la scuola italiana è oggetto della peggiore barbarie e di insensati tagli all’insegnamento. Mi pare una riflessione da non sottovalutare, e ogni libro, anche il più apparentemente ‘di svago’, dovrebbe tener di conto del contesto sociale, politico e culturale in cui si inserisce. Credo però che raccontare ancora una volta la vita del prode Beppino con la consueta immacolata compostezza da museo non gli avrebbe in fondo fatto un gran favore. Mi piace pensare che smontare i miti sia una maniera per renderli vivi, e per incoraggiare le giovini menti ad avvicinarcisi e a giocarci senza quel timore reverenziale che le icone storiche sono solite incutere; e che la capacità di deridere se stessa, di non prendersi troppo sul serio, di rimettersi in gioco, sia una fondamentale qualità della cultura.
Per cui, ardimentosi, leggete questo libro, è la Patria che ve lo chiede!
Odellac
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